da “La Voce del Popolo” di Fiume
di Ornella Sciucca
A colloquio con l’attrice, scrittrice e poetessa stando alla quale l’idioma è un potentissimo strumento di preservazione della tradizione e della cultura
Nonostante il grigiore della giornata piovosa, l’incontro con la sempre solare Elvia Nacinovich, vincitrice del premio “Osvaldo Ramous” nella categoria Letteratura, sezione Poesia in uno dei dialetti della CNI della 57ª edizione del Concorso d’arte e di cultura “Istria Nobilissima”, ci ha riscaldato l’anima. Nel corso dello stesso, l’autrice si è addentrata con fine sensibilità nel valore della poesia dialettale bumbara, elevandola a custode di memoria e verità. La sua “Litourgeia d’al taempo ch’a passa” (Liturgia del tempo che passa) è divenuta così un rito di parole, in cui il tempo, la vecchiaia e la morte si intrecciano con la bellezza della natura, dell’amore e il legame tra generazioni. Con sguardo lucido e venato d’ironia, Elvia ha riflettuto altresì sull’essenza della poesia, intesa quale alito profondo, sfioramento dell’anima e ponte tra passato e futuro, rilevando che non si spiega o meglio, come diceva Guy Goffette, “la poesia respira, sente, non devi capirla ma riceverla, come un bacio, come una carezza” “La mia concezione della lirica è che se la si usa quale terapia per sé stesso è semplicemente un andare a capo prima che la riga finisca. Se invece nasce una corrispondenza, arriva l’emozione e un altro si riconosce nei versi, si può parlare di questa forma espressiva“, ha altresì aggiunto.
La sua «Litourgeia d’al taempo ch’a passa» è una mini raccolta di poesie in dialetto bumbaro (dignanese). Come mai la scelta di esprimersi in poesia dialettale?
“L’ho fatto perché mi conosco e quando comincio a parlare mi sento dispersiva, a tratti logorroica, e per esprimere un concetto ci metto tanto di quel tempo che alla fine risulto noiosa e inconcludente. La poesia invece mi costringe a una sintesi e il mio dialetto mi aiuta in quanto espressione di una civiltà contadina che concedeva poco agli svolazzi, che era molto concreta, immediata e autentica, come pure un potentissimo strumento di preservazione della tradizione e della cultura. Sono letteralmente innamorata di quello bumbaro, il quale, pur essendo una lingua ferma, in coloro che lo considerano un’eredità preziosa, continua a vivere e a evolversi abbracciando il nuovo, e nel contempo fa sentire radici profonde. A volte avverto una sorta di pregiudizio nei confronti di chi usa il dialetto, come se si truccassero le carte per mascherare un prodotto di serie b. Beh, io ci metto molto impegno per dimostrare che non è proprio così. Impegno e ironia, tipica delle persone di una volta. A Dignano il tasso ironico variava a seconda delle ore della giornata, scarso la mattina, aumentava già a pranzo, per raggiungere l’apice dopo cena quando, tutti belli rilassati, complice la malvasia, partivano frecciatine e allusioni che sfociavano nella remenada. Forse lì ho capito che potevo usare l’ironia per vedere le cose attraverso un altro prisma”.
La verità si cela nei versi
Come mai ha scelto di usare nel titolo il concetto di “liturgia”?
“Ho avuto un’educazione molto religiosa. Da bambina mi piaceva andare a messa perché il prete raccontava quelle che lui chiamava parabole e per me erano semplicemente delle storie che ascoltavo incantata. Era tutto molto bello, finché non ho capito che le parabole si ripetevano, le narrazioni erano sempre quelle per cui ho perso l’interesse. In seguito, vuoi per saturazione o presa di coscienza, sono diventata atea ma fatalmente l’imprinting è stato quello e gira e rigira casco sempre lì. D’altra parte non si può negare che qualunque società imponga delle regole alle quali è impossibile sottrarsi e che per la loro ritualità ricalcano molto la forma liturgica”.
Tra i temi trattati vi sono anche il tempo che passa, la vecchiaia, la morte. Come le vive?
“Dipende, vi sono momenti sì e momenti no, ma il tempo che passa fondamentalmente non m’intimorisce e cerco di attrezzarmi come posso. Il pensiero relativo alla morte invece era molto presente nella mia infanzia, mi faceva tanta paura, e quando giocavo mi inventavo di essere una sopravvissuta. Devo dire che l’ironia e il riuscire a distaccarmi dalle cose mi aiutano molto. Ad esempio, a un certo punto le malattie arrivano e dobbiamo metterle in conto, per cui io le ho sempre considerate un incidente di percorso, da affrontare con serenità. A proposito della vecchiaia, nonostante si cerchi di controllarla, farlo è effettivamente inutile: si appartiene a quella categoria e indubbiamente si hanno tutti i difetti della stessa. Bisogna viverla con intelligenza, filosofia e leggerezza”.
La natura e gli animali
Non mancano le tematiche inerenti alla bellezza e grandezza della natura, come nella lirica «Feiur de valanda» (Fior di lavanda) …
“Al confronto di certe categorie, per esempio, della natura o degli animali, ci sentiamo superiori. Pensiamo ai fiori, nello specifico a quello di lavanda, che osservo mentre cammino. Possiamo fermarci a guardarlo tutto il tempo che vogliamo, osservarlo al microscopio, ma non sapremo mai se, a suo modo, abbia dei pensieri, dei sentimenti, e a sua volta sia lui a guardarci, a giudicarci. Chissà, magari, percependo la nostra vecchiaia, gli facciamo pena. A mio avviso, tutto ciò che nasce e cresce è un insieme di vibrazioni, di emozioni”.
Affronta altresì argomenti relativi ai rapporti intergenerazionali. Scrive di sua nonna e di suo nipote, rilevandone le peculiarità/similarità?
“Finché non sono diventata nonna non sapevo che cosa mi mancasse e non avrei mai potuto immaginare la sensazione di completezza e pienezza che si prova. Come scrivo nella poesia a lui dedicata, a mio nipote Sol piace tantissimo sentirsi ripetere che è la mia medicina. Quanto al confronto fra generazioni, anche qui la storia si ripete, anche se in modalità diverse, e oggidì ci troviamo a maneggiare con social, varie applicazioni, con la digitalizzazione, con l’intelligenza artificiale e simili allo stesso modo in cui lo fecero i nostri genitori/nonni ai tempi in cui la televisione era appena entrata nelle case. L’importante è capirlo e accettarlo”.
Feiur de valanda
A ꭍi sempro oun feiur de valanda
ch’a se verꭍo pourassè despoi
ch’a i so fradai iò finei da profoumà.
Sulo, ꭍuta a oun sul ꭍmortaveisso,
sulo veioula fra douti i altri sichi.
Cumo par nuialtri nassi in toun simiterio.
Ma lou, sto pinsiaer no lo sfeiura.
No stime dei ch’a i feiuri no iò pinsiaeri,
douto quil ch’a nasso e crisso
a so mù, a iò pinsiaeri.
Magari al calcola ch’a sta staion
neissun ghe ciouciarò l’aneima,
o, vanitous, ch’a douti i oci sarò par lou,
ma ‘vindo bus fursi al diravo:
Chei ti iè da vardà? Vecia!