La tutela della minoranza italiana

Università Popolare di Trieste 1899-1999, cent’anni di impegno nella tutela e proozione della cultura italiana a Trieste e la sua Provincia, in Istria, Fiume e Dalmazia
Luciano Rossit

Parte prima

È ormai universalmente noto che, fra le conseguenze più dolorose della seconda guerra mondiale, va annoverato l’esodo di 350.000 italiani dall’Istria, dal Fiumano e dalla Dalmazia, provocato dalla cessione di quelle terre alla Jugoslavia del Maresciallo Tito, considerata potenza vincitrice, nonostante l’equivoca posizione o l’aperto appoggio alla Germania nazista di non pochi e consistenti gruppi politici e militari slavi.

L’esodo verso l’Italia, cominciato in sordina e in modeste proporzioni, già durante la guerra e accentuatosi col Trattato di pace del 1947, esplose a partire dal 1954, anno del famoso Memorandum di Londra, che assegnava ufficialmente alla Jugoslavia l’amministrazione della Zona B (Buiese e Capodistriano).
Motivi scatenanti del triste fenomeno furono la rigida instaurazione del sistema politico comunista e la sempre più evidente volontà del regime titino di “ripulire” o, addirittura, di “purificare” tutta l’area istro-dalmata dall’elemento italiano, che vi aveva predominato per secoli con la sua lingua, la sua cultura e la sua civiltà, pur in pace sostanziale con la minoranza autoctona slovena e croata.

Non tutti gli italiani, però, rinunciarono alle loro radici: una ristretta minoranza di essi non volle lasciare la loro terra, le loro città, i loro villaggi: chi per convinta adesione alla nuova ideologia (e furono la maggior parte), chi per non staccarsi dai loro campanili, dai loro cimiteri, dai loro beni e chi a causa dell’età avanzata.
Quelli che rimasero divennero ben presto “i rimasti” ed ebbero, da subito, una sorte infausta: sempre malvisti e talora perseguitati dai nuovi occupatori, nonostante l’asserita scelta ideologica, erano considerati “traditori”, venduti allo straniero, e perciò stesso pericolosi e ripudiati dagli esuli, dagli italiani e specialmente dai triestini.
Ma pur c’era qualcuno, a Trieste, che vedeva il problema in tutt’altro modo: quei pochi rimasti, al di là di ogni altra considerazione, erano gli unici che continuavano a parlare italiano, a mandare, seppur in numero esiguo, i loro figli alle poche scuole italiane rimaste aperte e non eliminate d’autorità dal Governo o dalla temutissima Lega dei comunisti.
Quindi, se si voleva che l’italianità continuasse a covare in Istria, a Fiume e in Dalmazia, era a questi “rimasti” che ci si doveva rivolgere, erano questi “rimasti” che occorreva rianimare e, forse, rieducare.

Questo “qualcuno” era l’Università Popolare di Trieste, Ente culturale, come si è visto, affermato in città da ben cinquantacinque anni.
I dirigenti dell’Università Popolare e specialmente il Consiglio Direttivo, con alla testa l’ing. Beniamino Battigelli, consapevoli che, se qualche cosa non veniva fatto al più presto, gli italiani rimasti sarebbero stati rapidamente assimilati e, in breve, sarebbero sparite lingua, cultura, tradizioni italiane, dopo molto arrovellarsi, fra l’incomprensione generale e la diffidenza di tutti gli ambienti in cui il problema veniva posto, ebbero un intuito fondamentale: il Memorandum di Londra vincolava lo Stato italiano e i suoi organi ufficiali e istituzionali a prendere qualche sporadica e povera iniziativa culturale soltanto a favore degli italiani rimasti nella ex Zona B, cioè nei limitati distretti di Buie e di Capodistria.
Vincolava, dunque, lo Stato italiano, ma chi mai avrebbe potuto impedire a un Ente culturale privato e non statale di prendere contatti e formulare programmi con un analogo Ente jugoslavo che, al di fuori (per quanto possibile) dell’ingerenza statale, rappresentasse gli italiani rimasti? E con esso varcare il Quieto e avviare iniziative culturali e di mantenimento dell’identità nazionale italiana a Rovigno, a Pola, a Fiume e dovunque vivessero gruppi di italiani?

A vero dire il problema della conservazione della cultura italiana nei Territori ceduti alla Jugoslavia e l’esigenza di stabilire delle valide e durature relazioni con la comunità dei “rimasti” erano stati fatti propri dall’Università Popolare di Trieste già il 27 ottobre 1954, (cioè il giorno successivo alla cessazione nel Territorio del Governo Militare Alleato): il Consiglio Direttivo dell’Ente, presieduto dal prof. Mario Picotti, aveva chiesto ufficialmente quel giorno stesso al Commissario Generale del Governo, dopo aver esaminate le clausole del Memorandum d’Intesa, di estendere la propria già vastissima attività culturale anche alla Zona B dell’ex Territorio Libero di Trieste.
L’iniziativa dell’Università Popolare che, ovviamente, manifestava la volontà di avviare concreti rapporti di collaborazione con gli italiani dell’Istria e di Fiume, suscitò una vastissima eco in Italia, dove la notizia venne immediatamente diffusa dalla stampa locale e nazionale e diramata dal Giornale radio romano delle ore 13, già il 17 ottobre 1954.

Questa iniziativa dell’Università Popolare, però e purtroppo, non ebbe riscontro alcuno: nessun riscontro ci fu da parte del Commissario Generale del Governo italiano, se non si vuol considerare indirettamente una significativa risposta il fatto che lo stesso Commissario del Governo, con Decreto n. 38 del 24 novembre 1954, pubblicato sul Bollettino Ufficiale per il Territorio di Trieste n. 4 già il 30 novembre 1954, riconosceva ed elevava l’Università Popolare di Trieste ad Ente di cultura e d’istruzione sotto il proprio controllo.

Né ci furono altri commenti o giudizi positivi o negativi da parte di nessuno: gelido silenzio da parte di esponenti politici, associazioni, istituti.
Dopo i primi commenti, vista la generale indifferenza, anche la stampa ignorò la posizione e i propositi dell’Università Popolare sul problema che, a vero dire, cominciò a render perplessi e prudenti anche alcuni membri del Consiglio Direttivo dell’Ente.

In realtà la questione era delle più delicate: l’Università Popolare aveva impostato bene e coraggiosamente il problema di un’estrema sopravvivenza della civiltà, della cultura e dell’identità italiana nei Territori ceduti alla Jugoslavia e abbandonati dalla maggior parte degli italiani migliori, ma aveva indicato come unica ed esclusiva via possibile quella di un rapporto diretto proprio con quelli che l’opinione pubblica, gli esuli, le diffidenze, i sospetti, i timori di quei tempi consideravano i reietti.

Né è da escludersi la probabilità che, nei primi anni dopo il ritorno di Trieste all’Italia, fosse prudente, secondo la sua migliore tradizione, anche la posizione del nostro Ministero degli Esteri, in costante rapporto con il Commissario del Governo, col dott. Mario Albertario, Console Generale d’Italia a Capodistria e col dott. Guido Gerin, Capo dell’Ufficio triestino di collegamento con il Ministero degli Affari Esteri.

D’altronde la situazione d’oltre confine consigliava la massima prudenza: sloveni e croati erano in costante stato di euforia e di agitazione, manifestavano e si esaltavano per ogni nonnulla, liquidando sbrigativamente avversari reali o presunti, anche della loro stessa nazionalità, sostenuti e spesso indirizzati dalla potentissima L.C., cioè la Lega dei comunisti e, ben presto, anche dall’A.S.P.L., l’Alleanza socialista del popolo lavoratore, organo di capillare e severissimo controllo.

Perché qualche cosa si muovesse, di anni dovettero passarne ben otto, durante i quali mai ho cessato di tener vivo l’argomento, dentro e fuori dall’Università Popolare.
Fu, infatti, nel 1962 che, inopinatamente, venni contattato dal nuovo Console Generale d’Italia a Capodistria, dott. Guido Zecchin, che mi propose di accompagnarlo la sera del 23 giugno a Gallesano, a due passi da Pola, dove si sarebbe tenuto uno spettacolo in lingua italiana, sostenuto dal complesso folcloristico di Rovigno.
Naturalmente accettai col più vivo entusiasmo tanto più che, evidentemente, il Ministero degli Affari Esteri si stava muovendo e tanto più che io l’Istria, al di fuori di Capodistria e di Isola, non la conoscevo per niente.
Il lungo tragitto, perciò, fu per me del più alto interesse: in quel pomeriggio rimasi affascinato dalla terra rossa e fertile, dai campanili che svettavano dai monti, da Buie, vedetta dell’Istria, dal fiordo del Canal di Leme, ma l’emozione maggiore la provai nell’attraversare su un ponte in allora formato con poche assi di legno, il piccolo fiumicello del Quieto, che delimitava la Zona B a sud ed oltre il quale l’Italia civile non poteva andare, ma oltre il quale, avevo una fiducia incrollabile, sarebbe andata, per l’Italia, l’Università Popolare di Trieste.

Notai anche altre cose: il cattivo stato delle strade, la sommità dei paracarri dipinte di rosso, l’assenza quasi completa di traffico e la rarità di presenze umane, una sensazione di silenzio, interrotto soltanto dal pulsare della macchina sulla quale viaggiavamo.
L’accoglienza che ci riservarono gli abitanti di Gallesano, gli esecutori rovignesi e un foltissimo gruppo di giovani connazionali, fu di un calore tale da commuoverci e da rimanere indimenticabile nel mio ricordo, conservatosi vivissimo.
Fu quella, poi, l’occasione in cui incontrai per la prima volta il prof. Antonio Borme, che l’anno successivo sarebbe stato eletto presidente dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e col quale avrei lavorato intensamente per un decennio fra straordinari successi e infinite difficoltà.
Lo spettacolo del gruppo folcloristico rovignese, appena inframezzato da qualche obbligatoria e malinconica nenia croata, fu un’esplosione di gioia e di gaiezza: bitinade rovignesi, canti marinari, scenette umoristiche, fresche danze istriane e tutto in italiano e in dialetto veneto!
Trovavo, vicino a Pola, quanto non avevo immaginato e nemmeno avevo sperato e capivo, con un nodo alla gola, che occorreva far presto, per non disperdere queste energie, per sfruttare questo terreno ancora disponibile ad allargarsi oltre il folclore dei canti e dei balli, a conservare la tradizione, ma anche a inoltrarsi nell’ampliamento e nell’aggiornamento, a rimanere se stesso, ma anche a rafforzare il cordone ombelicale che lo teneva legato alla Nazione Madre, all’Italia.
A spettacolo concluso fummo invitati nella locale scuola elementare, dove gli ospiti, riunendo i banchi di un’aula, avevano preparato un rinfresco semplice, ma rallegrato da altri canti italiani in lingua e in dialetto, inframezzati da risate e battute di tono familiare, tanto spontanee e cordiali nei nostri confronti, da farci fare molto tardi, tanto che ripartimmo da Gallesano che era quasi l’una di notte.
In macchina mi rannicchiai sul sedile posteriore: ben presto il Console Generale e il suo consigliere si assopirono, lasciandomi libero di assaporare fino in fondo la mia emozione e la mia commozione: pensavo soprattutto ai giovani, certamente figli dei “rimasti”, ma estranei alle decisioni e alle motivazioni che avevano indotto i loro padri a rimanere, pensavo che tanti di essi erano certamente vittime del trasferimento forzoso, imposto negli anni ’50 dalle autorità, dalle scuole italiane alle scuole croate, pensavo che forse non era male che imparassero un’altra lingua, ma che era urgente e indispensabile che questa lingua e la cultura che essa portava con sé non si sostituisse a quella materna, nella quale si esprimevano ancora tanto bene e con evidente piacere: è nella lingua materna di un popolo, infatti, che la sua civiltà manifesta e rappresenta compiutamente, fedelmente, genuinamente le sue tradizioni, il suo modo di essere, di sentire, di reagire alla realtà.
Pensavo che la loro cultura non poteva rimanere limitata al folclore locale, prezioso e anche indispensabile strumento per la salvaguardia della tradizione, ma insufficiente a sviluppare aggiornamenti e orizzonti nuovi.
Pensavo, infine, che buona parte di quei ragazzi ed anche una buona parte degli adulti che avevo visto e conosciuto, erano sì sicuramente italiani (e per me, in quel momento, questa era l’unica cosa che contava), ma che la maggioranza di essi certamente non era mai stata in Italia ed anzi, probabilmente non era neanche mai uscita dall’area ristretta in cui era nata e vissuta, tanto che potevo ipotizzare, senza difficoltà, che gli italiani di Rovigno, salvo qualche eccezione, non avessero mai preso contatto con gli italiani di Fiume, né quelli di Pola con quelli di Parenzo.

Fu in quelle due ore di percorso verso Trieste che mi proposi con ferma volontà, mentre mi riecheggiavano nell’animo i canti e i discorsi appena uditi, che a soccorrere culturalmente i nostri connazionali, ad allacciare per prima umani rapporti con essi, a non considerarli “traditori” perché, comunque, avevano fatto una libera scelta, sarebbe stata l’Università Popolare di Trieste.
Avrei voluto fare tutto in fretta, in poche settimane, al massimo in un paio di mesi, ma la realtà fu ben diversa: le opinioni non unanimi del Consiglio Direttivo e del Consiglio d’Amministrazione, l’incertezza del presidente Mario Picotti, la contrarietà dei partiti politici e degli esuli, le cautele del Ministero degli Esteri, fecero sì che ogni decisione venisse rinviata e riesaminata senza fine per oltre due anni, senza che io cessassi mai dalle mie, persino ossessionanti, pressioni perché si decidesse qualche cosa, magari di modesta entità, ma che costituisse un inizio, un avvio, un piccolo passo per la conservazione dell’identità nazionale degli italiani rimasti in Istria.
Poi, finalmente, uno spiraglio di possibilità si aperse a seguito di chissà quali e quanti conciliaboli fra Trieste, Roma e, forse, anche l’Istria.
Nel settembre 1964 il prof. Guido Gerin che, come abbiamo visto, dirigeva l’Ufficio di collegamento con il Ministero degli Affari Esteri italiano, mi telefonò una sera a casa, invitando i rappresentanti dell’Università Popolare a prendere contatto immediato col prof. Antonio Borme, a Rovigno, per esaminare la possibilità di una collaborazione con l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, della quale egli era stato eletto presidente un anno prima.
Il giorno dopo il Consiglio Direttivo prendeva atto dell’intervento Gerin (evidentemente voce del Ministero degli Esteri) e delegava all’incontro con Borme il vice-presidente, prof. Giuseppe Rossi Sabatini (sempre favorevole all’intervento) e me, segretario generale dell’Ente.
Fu, dunque, in un radioso pomeriggio del 1964 che i due delegati dell’Università Popolare di Trieste si incontrarono nell’ufficio di presidenza del Liceo italiano di Rovigno con il prof. Antonio Borme, preside del Liceo stesso, docente di lingua e letteratura italiana e presidente dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume.
L’impressione che, di primo acchito, ebbero di Borme, fu estremamente positiva e confermò quella avuta due anni prima a Gallesano: uomo dallo sguardo chiaro e dai modi franchi, riservò agli ospiti un’accoglienza aperta e molto cordiale.
Dopo i brevi convenevoli iniziali, rivelò che, da quando era presidente dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, aveva cercato, con i suoi collaboratori e con certe sue relazioni triestine, di individuare un Istituto col quale avviare una collaborazione che consentisse agli italiani rimasti di intrattenere relazioni organiche e continuative con l’Italia, loro “Nazione d’origine” (questo era il termine inizialmente usato, prima che fosse adottato quello di “Nazione Madre”).
Su consiglio ricevuto, la preferenza si era orientata sull’Università Popolare di Trieste, perché si sapeva che era interessata da tempo ad avviare questa collaborazione, avendolo dichiarato ufficialmente fin dal 1954 e perché aveva la potenzialità e l’esperienza necessarie a sobbarcarsi a una simile impresa.
Gli interlocutori chiarirono subito di essere consapevoli delle riserve che ancora esistevano a proposito della progettata collaborazione: essa era malvista a Trieste, dove non mancavano, perciò, rampogne all’Università Popolare ed era malvista in Jugoslavia, dove l’Ente triestino era sbrigativamente definito “fascista”.
Concordemente stabilito, senza ulteriori indugi, di non tener conto di questo tipo di ostacoli e proponendosi di affrontare lealmente, quando si fossero verificate, le ulteriori e prevedibili resistenze da parte delle strutture politiche jugoslave, gli interlocutori lavorarono di buona lena, accordandosi alla fine su tre punti principali: 1) limitazione della collaborazione ai soli campi della cultura italiana e della conservazione dell’identità nazionale della minoranza; 2) nessuna interferenza ideologica fra Università Popolare di Trieste e Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume; 3) nessuna interferenza reciproca negli affari interni dei due Istituti.
Borme, Rossi Sabatini e Rossit si impegnarono ad assicurare alla collaborazione una costante continuità, escludendo ogni tipo di provvisorietà e di improvvisazione, in quanto rapporti ininterrotti e quotidiani con la Nazione d’origine sarebbero stati l’unica garanzia per la minoranza italiana di non essere assimilata dalla maggioranza.
Vennero pure abbozzati e anche definiti gli schemi iniziali di attività e di interventi che furono perfezionati, poi, nel corso di un successivo incontro al Liceo “Combi” di Capodistria.
Il dinamismo e l’efficienza del rapporto di collaborazione furono, infine, assicurati da regolari incontri di lavoro settimanali fra il presidente dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e il segretario generale dell’Università Popolare, che per molti anni ebbero luogo, a metà strada fra Trieste e Rovigno, e cioè presso la scuola elementare di Cittanova d’Istria.

Avvenuti i primi accordi e le prime intese con l’Università Popolare di Trieste, l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume si preoccupò di informare i connazionali e, in generale, l’opinione pubblica, della grande novità e, soprattutto, del fatto che i contatti con la cultura italiana non sarebbero più stati occasionali, ma permanenti: era finita l’era delle fuggevoli e rapide presenze in Istria delle compagnie teatrali di Cesco Baseggio o di Diana Torrieri o di rarissimi conferenzieri, pur del calibro di Schiffrer, Alicata, Finocchiaro e Aristarco.
A proposito di tale informazione ai connazionali, Ezio e Luciano Giuricin nel numero unico del volume “Etnia”, del 1994 (pubblicato per i “Trent’anni di collaborazione”), riferiscono i punti essenziali dell’intervista a “Panorama” rilasciata dal prof. Antonio Borme nell’ottobre 1964 in questi termini, che conviene riportare integralmente: “Partendo dal presupposto che la separazione territoriale imposta dai confini comporta un latente pericolo di isolamento che può essere deleterio per una minoranza staccata dalla sua matrice”, l’intervistato rilevava che la crescita culturale della Comuinità italiana in Istria e Quarnero era destinata a stagnare o persino a regredire in assenza di un costante e insostituibile apporto della Nazione d’origine. “Al gruppo etnico italiano – affermava Borme – tale apporto è indispensabile e noi che ad esso apparteniamo siamo convinti di avere tutto il diritto morale di chiederlo e di pretendere che ci sia disinteressatamente dato”.
Secondo Borme questa era la ragione fondamentale per cui l’Unione si doveva impegnare con tutte le sue forze nell’allacciare relazioni e contatti con il mondo culturale italiano.
Sino ad allora, infatti, erano state condotte solo delle iniziative isolate e personali.
D’altro canto se, da un lato, dovevano essere salutati gli scambi culturali previsti dall’accordo italo-jugoslavo, relativo alla Zona B, l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume non poteva che esprimere insoddisfazione in quanto, con quell’accordo, erano stati ignorati i diritti della parte più consistente del Gruppo Nazionale (quella residente nei “Territori ceduti” al di là del Quieto).
Da qui l’esigenza di eliminare l’ingiustificata divisione territoriale della minoranza, onde offrire a tutti, per quanto atteneva allo sviluppo di stabili relazioni con la matrice nazionale, le medesime opportunità.
Un obbiettivo che poteva essere conseguito, secondo Borme “soltanto mediante l’inserimento dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume nel processo degli scambi culturali fra i due Paesi”, senza dimenticare che il successo di questa azione non poteva che dipendere, in buona misura, dalla comprensione, dalla sensibilità e dal realismo degli Enti italiani con i quali l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume aveva cominciato a collaborare e in particolare dell’Università Popolare di Trieste.
Ci si attendeva pertanto dalla Nazione Madre – proseguiva Borme – “un aiuto conforme alle nostre esigenze, alla nostra collocazione storica, ai valori ispiratori della nostra impostazione programmatica”.
Egli precisava, nel contempo, nell’intervista citata che “alla luce della dignità che ci siamo conquistati, siamo pronti ad accettare la collaborazione auspicata del mondo italiano a patto che sia spassionata, organica e stabile”.

La prima cosa da fare quando si vuol assicurare a un Gruppo etnico di minoranza, che vive in mezzo a una maggioranza diversa per costumi, tradizioni e civiltà, è quella di assicurargli il mantenimento della lingua nazionale, suprema espressione di sentimenti, di modi di essere, indice caratteristico della personalità e del carattere.
In vista di questi principi antichi ed universalmente accettati, l’Università Popolare propose e l’Unione accettò che non solo le prime, ma tutte le iniziative destinate a divenire permanenti riguardassero innanzi tutto la lingua italiana, la correttezza del suo uso ed, essendo la lingua un fenomeno in continuo divenire, il suo continuo aggiornamento. Per questo si stabilì di dedicare, sin da subito, l’attenzione culturale alla Scuola, alla diffusione capillare di libri italiani, editi in Italia, alla continua presenza, nei Circoli di cultura esistenti, di studiosi, ricercatori e tecnici provenienti dall’Italia, per tenervi lezioni, conferenze, dibattiti e corsi, durante tutto il periodo dell’anno ed al soggiorno in Italia a vario titolo ed a rotazione, organizzati in consistenti comitive, del maggior numero possibile di connazionali, con preferenza per i giovani e per i membri più attivi dei Circoli stessi.

Parte seconda

Gli inizi, si sa, sono sempre difficili: progettare è relativamente facile, ma cominciare concretamente, specialmente quando si hanno addosso tanti sguardi ostili o, quanto meno, diffidenti, è un’altra cosa.
Scartate diverse ipotesi di inizio, perché poco significative o troppo esposte a valutazioni politiche, si scelse di cominciare con una conferenza medica a Fiume, ben al di fuori della Zona B, nella bella sala di Palazzo Modello.
Il conferenziere designato fu il prof. Loris Premuda, Direttore dell’Istituto di Storia della Medicina dell’Università degli Studi di Padova sul tema: “Alcune errate opinioni e dannosi pregiudizi nel campo delle malattie e dell’alimentazione”.
Prima della conferenza ci furono i saluti ai numerosissimi convenuti da parte del prof. Borme per l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e del prof. Rossi Sabatini per l’Università Popolare. Alla fine di essa, applauditissima con evidente significato, il saluto del prof. Premuda, alla “liburnica” città di Fiume.
Di rilevante importanza la presenza, a questa prima manifestazione della collaborazione, del Provveditore agli Studi di Trieste, dott. Alberto Maria Tavella.
La serata si concluse con l’invito a cena degli ospiti in un albergo cittadino da parte dei massimi dirigenti dell’Unione. A tavola un po’ di imbarazzo, ma l’impresa era ufficialmente cominciata.

I programmi di intervento per il 1965 prevedevano già una parte notevole di quello che sarebbe stato, fra non molto, il “Piano permanente ed organico di attuazione delle attività culturali e didattiche” programmate in collaborazione fra i due Istituti: concerti, conferenze a ciclo e a lezione singola, escursioni a Trieste per la frequenza dei suoi ambienti culturali, invio di libri e di materiale didattico alle scuole, abbonamenti a periodici e quotidiani italiani e, novità di rilevante importanza e molta attesa, i viaggi d’istruzione in Italia.
Per il primo itinerario dall’Istria alla nostra Penisola, la scelta cadde, in modo significativo e libero dai timori che avevano accompagnato la prima conferenza, sulla città di Ravenna.
Lo scopo era evidente: inaugurare i viaggi d’istruzione con un primo e reverente omaggio alla tomba di Dante, poeta nazionale italiano. Della comitiva facevano parte (ed anche questo assunse un suo particolare significato), i trentacinque massimi dirigenti dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, guidati dallo stesso prof. Antonio Borme e diretti da un funzionario dell’Università Popolare di Trieste: era il maggio 1965 e ricorreva il settimo centenario dalla nascita del grande Fiorentino.
La comitiva depose nel sacello una corona d’alloro e si raccolse brevemente davanti al sarcofago. Naturalmente la permanenza a Ravenna consentì ai connazionali anche una approfondita visita degli insigni edifici e monumenti, soprattutto bizantini, di cui la città è ricca.

Gradita novità fu la pubblicazione sui maggiori quotidiani regionali delle cronache riguardanti la “missione ravennate” e le altre iniziative programmate dall’Università Popolare con opportuni accenni agli scopi che l’Ente triestino si proponeva.
Anche le conferenze ed i corsi nelle sedi dei Circoli di cultura di tutta l’Istria finirono per richiamare, con gli anni, l’attenzione della stampa e, progressivamente, anche se lentamente, dell’opinione pubblica, in quanto si prestavano a tenere conversazioni e dibattiti di livello divulgativo in Istria ed a Fiume, i più bei nomi della cultura triestina (Agnelli, Apih, Bidussi, Camerini, Cervani, Gioseffi, Maier, Maucci, Moncalvo, Pesante, Petronio, Raimondi, Runti, Saraval, Valussi, Viozzi ecc. ecc.) e molti dei più insigni rappresentanti della cultura nazionale (Sergio Donadoni, Margherita Hack, Massimo Pallottino, Pietro Valdoni ecc. ecc.).

Ma l’anno 1965 fu coronato anche da altri successi, a testimoniare con quanta cura e con quanta responsabilità veniva organizzata l’attività: nel giugno di quell’anno, per esempio, ebbe inizio anche l’attività concertistica con i brillanti successi riscossi in varie sedi dal “Quartetto di Trieste”, uno dei più importanti complessi da camera italiani.
Naturalmente l’Autorità politica jugoslava ed in particolare l’Alleanza socialista del popolo lavoratore vigilava, seguendo da vicino le varie iniziative, partecipando non di rado alle riunioni degli organi direttivi dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume ed ascoltando attentamente le relazioni del presidente sull’andamento e lo sviluppo della collaborazione con l’Università Popolare di Trieste e, quindi, con l’Italia.
Oggi possiamo dire che quel 1965 fu veramente l’anno, al quale riconoscere che rappresentò il fortunato esordio di una collaborazione destinata a durare senza limiti nel futuro, benché cominciata in totale solitudine dall’Università Popolare, che era ancora ben lontana dal divenire, ufficialmente, il “braccio operativo” del Ministero degli Esteri italiano (1977).
Di questo felice esordio è testimonianza eccezionale, quanto ebbe a dire il presidente Borme, già nell’ottobre di quell’anno, alla XII Assemblea dell’Unione, tenutasi a Pola: “Dobbiamo dare atto all’Università Popolare di Trieste della sensibilità rivelata, della capacità di valutazione obiettiva e realistica delle nostre posizioni. A distanza di pochi mesi siamo in grado di fare un bilancio positivo delle iniziative previste dalla collaborazione che hanno contribuito ad arricchire i nostri programmi e la nostra vita culturale”.

Ben presto, però, si presentò il problema finanziario, al quale gli organi che, senza apparire, sostenevano il lavoro dell’Università Popolare, sembravano non aver mai e neanche lontanamente pensato.
Tanto che si giunse (e questo è pochissimo noto) a un passo dalla rinuncia da parte dell’Università Popolare di Trieste: una sera d’autunno dello stesso 1965 il Consiglio Direttivo venne convocato per formalizzare questa rinuncia: il Ministero degli Esteri, il Consolato Generale di Capodistria, l’Ufficio di collegamento con il M.A.E., non potevano pretendere che l’Università Popolare sostenesse con mezzi finanziari (che poi non aveva) un’attività non solo costosa, ma che doveva essere condotta anche con dignità e senza tirchierie.
La riunione era appena cominciata (ed io avevo fatto un estremo e inutile tentativo per placare l’irritazione dei Consiglieri), quando irruppe nella sala del Consiglio il nostro fattorino, che aveva appena ricevuto un telegramma urgentissimo, firmato dal prof. Gerin, il quale chiedeva al Consiglio di “soprassedere” momentaneamente a ogni decisione, in quanto nelle “sedi competenti” si stava per adottare una rapida soluzione.
In realtà la soluzione urgente era costituita dall’invio immediato (arrivò il giorno dopo) all’Università Popolare di Trieste, di un’ispettrice del Ministero della Pubblica Istruzione, latrice di un contributo di 2 milioni di lire, che sarebbero stati versati dopo un approfondito accertamento su come stavano le cose e dopo che il Provveditore Tavella avesse dato il suo parere favorevole.
I compiti relativi a questi due adempimenti vennero affidati a me e in due giorni accertamenti e benestare vennero fatti e concessi, dando il via a una pronta erogazione del contributo, che, in quell’anno, era da considerarsi rilevante.

Fu nel 1966 che, su sollecitazione dei laureati del nostro Gruppo etnico, vennero istituite, nell’ambito della collaborazione, le prime borse di studio per le Università italiane, nell’intento di rimpolpare la consistenza degli intellettuali italiani, particolarmente depauperati dall’esodo.
Qui si inserisce un’altra vicenda poco nota, relativa al sostegno finanziario delle attività svolte dall’Università Popolare a favore degli italiani rimasti in Istria e nel Fiumano.
Poco prima dell’inizio della collaborazione fra l’Università Popolare di Trieste e l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, il Ministero degli Affari Esteri italiano aveva compiuto, per il tramite del proprio Consolato Generale a Capodistria, retto dal dott. Amedeo Cerchione, un tentativo di attribuire a studenti italiani istriani e fiumani un buon numero di borse di studio per la frequenza di facoltà universitarie presso atenei italiani di qualsiasi tipo.
Venne redatto e largamente pubblicizzato il bando di concorso, venne indicata la notevole consistenza finanziaria delle borse, fu indicato il largo tempo a disposizione degli interessati per presentare la documentazione, ma nessuno, dico nessuno, presentò domanda: erano a disposizione ben diciassette milioni, cifra, per allora, veramente molto elevata, che non poté essere impiegata per la proibizione assoluta delle Autorità jugoslave di accettare la pur allettante offerta del Governo italiano, del quale e delle cui intromissioni né il Governo di Belgrado, né le locali Leghe dei comunisti italiani volevano sentir parlare.
Ma, come abbiamo visto a proposito dell’ingresso in Istria e nel Fiumano dell’Università Popolare di Trieste, in quegli anni si procedeva soprattutto per intuiti, risolvendo, dinamicamente, con essi le questioni più spinose e più esposte ad essere considerate dalle Autorità jugoslave (una fissazione che dura tuttora in Slovenia e Croazia), come espressione dell’irredentismo e del presunto nazionalismo italiano. L’intuito, questa volta, fu del prof. Guido Gerin, capo dell’Ufficio di collegamento con il Ministero degli Esteri, fine osservatore e conoscitore delle vicende della nostra minoranza, il quale suggerì di trasferire i 17 milioni all’Università Popolare di Trieste, perché li impiegasse in borse di studio, cioè in quell’iniziativa che era fallita al nostro Consolato Generale.
Il Ministero accettò, il trasferimento avvenne in tempi rapidi e l’Università Popolare, d’accordo con l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, in men che non si dica, assegnò le borse di studio disponibili a studenti di nazionalità italiana che avessero assolto una scuola media superiore italiana.

La riuscita dell’esperimento risolse, contemporaneamente, anche il problema della regolarità dei finanziamenti annuali all’Università Popolare da parte del Ministero degli Affari Esteri: siccome i 17 milioni andati a buon fine erano stati tratti dalla disponibilità dei capitoli 2604 e 2605 del Bilancio dello Stato (Direzione Generale delle Relazioni Culturali – Ufficio IX – borse di studio a cittadini stranieri e a cittadini italiani), si pensò di trasformare in borse di studio tutte le voci di attività svolte, ormai quasi quotidianamente, dall’Università Popolare in Istria e nel Fiumano: così si ebbero le borse-libro, le borse di studio, le borse-viaggio, le borse speciali di aggiornamento culturale e professionale per insegnanti, giornalisti, professionisti, le borse seminariali, ecc. ecc.

Nel marzo 1966 la rigidità e talora l’intransigenza jugoslava sembrarono attenuarsi e parve che si avviassero, all’interno, alcuni cambiamenti, non di democratizzazione, impensabile nel regime autoritario saldamente instaurato da Tito, ma almeno di minor chiusura e di minor grigiore: fu in quel mese, per esempio, che venne abolito l’obbligo del visto per il passaggio dall’Italia alla Federativa.
E fu in quello stesso anno (settembre) che la Commissione croata per le questioni nazionali dell’A.S.P.L. (Alleanza socialista del popolo lavoratore), affrontò il “problema” dei rapporti dell’Unione con l’Università Popolare di Trieste, esprimendo un significativo apprezzamento per i rapporti instauratisi fra la minoranza italiana e la Nazione Madre, per il tramite della collaborazione, in via di sempre maggiore sviluppo, fra l’Università Popolare di Trieste e l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume.
Uguale se non ancor più positivo fu il giudizio dell’A.S.P.L. slovena, che sottolineò il diritto imprescindibile dell’etnia italiana di avere rapporti con l’Italia, così come gli sloveni di Trieste si vedevano riconosciuto il diritto di intrattenere relazioni culturali con la Slovenia.
Da parte croata si giunse a riconoscere che certe “incomprensioni iniziali”, da parte politica, erano stati soltanto “disguidi”, che sarebbero stati superati.

Nello stesso 1966, l’Università Popolare e l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume ritennero che l’atmosfera politica fosse favorevole a un altro passo di alto significato, anche politico: il “Memorandum di Londra” prevedeva che l’Italia potesse organizzare annualmente a Portorose, per i soli insegnanti delle scuole italiane della Zona B, un Seminario di cultura italiana, affidato all’Ufficio di Segreteria delle Commissioni miste italo-jugoslave, funzionante a Trieste.
Dal Seminiario, dunque, erano esclusi, anzi, rigorosamente esclusi, gli insegnanti d’oltre Quieto, cioè la maggioranza degli insegnanti delle scuole italiane rimaste nei Territori ceduti alla Jugoslavia: basti pensare a quelli di Parenzo, Umago, Rovigno, Dignano, Pola, Fiume e così via.

Ebbene, Università Popolare e Unione promossero dal 19 al 29 novembre (10 giorni), nell’accogliente Hotel Regina di Trieste, il primo Seminario di studi sulla “Didattica della lingua e della letteratura italiana”, riservato agli insegnanti delle scuole elementari e medie d’oltre Quieto, ma non precluso agli insegnanti della Zona B. I docenti del Seminario, scelti fra quelli di più chiara fama, furono ben sedici.

Negli anni successivi, fino a tutt’oggi, al Seminario culturale si aggiunsero, via via, ben altri 16 seminari riguardanti materie diverse, per la maggior parte collegati con le esigenze delle scuole: alcuni di essi si svolgevano in Istria senza mai discriminare però insegnanti e frequentatori secondo la dislocazione della loro residenza.

Nell’intento di sopperire alle mancanze più vistose di cui maggiormente soffrivano i nostri connazionali, i due Istituti rivolsero la loro attenzione all’inesistenza, in Istria e nel Quarnero, di negozi di libri italiani e, soprattutto, di cinema in lingua italiana.
Vi provvidero sin dagli inizi, attirando su di sé, ancora una volta, l’occhiuta attenzione degli organismi politici. Fu istituita la “Mostra itinerante del libro italiano”, che prese le mosse dal Circolo italiano di cultura di Fiume, alla presenza di un foltissimo pubblico. Dotata di ben 2000 volumi di autori classici e moderni, fu inaugurata dal prof. Paolo Blasi con una conferenza su Ugo Foscolo e proseguì il suo prestigioso cammino verso Albona, Pola, Rovigno e Capodistria, venendo visitata, a lungo, anche da connazionali delle località viciniori a quelle prescelte.

Per quanto riguarda il cinema, fu istituito ed attrezzato un moderno “Cinemobile”, che, per molti anni, cioè fino all’affermarsi della televisione, raccolse nelle sedi dei Circoli, o in sale appositamente affittate, migliaia di connazionali e proiettò centinaia di pellicole in lingua italiana, noleggiate, a rotazione, in un Centro specializzato di Udine. Già nel 1967 le proiezioni furono 51 con 13.000 spettatori, per arrivare, negli anni 70 a 600 proiezioni all’anno: nel 1971-72 gli spettatori furono 90.000.
Naturalmente occorreva molto discernimento nella scelta delle pellicole, per evitare sequestri o accuse: si dovevano escludere argomenti di carattere religioso e, soprattutto, films di guerra che esaltassero la preponderanza dell’apporto americano nella conclusione vittoriosa del conflitto.

Nell’intento di aggregare e di sviluppare la ridotta consistenza numerica degli intellettuali della minoranza, l’Università Popolare, in accordo con l’Unione degli Italiani, si buttò a corpo morto nella politica di accrescimento delle scuole italiane dell’Istria e di Fiume, rimaste operanti dopo la forzata trasformazione di molte di esse in scuole con lingua d’insegnamento croata, di cui si è già parlato.
Si provvide a donare a tutti gli scolari ed agli studenti degli Istituti italiani tutti i libri di testo necessari allo studio, scegliendoli fra i migliori di quelli editi e stampati in Italia; si aggiunsero vocabolari della lingua italiana ed atlanti ricchi di carte geografiche dedicate alla Nazione d’origine ed alle sue Regioni; si provvide a dotare aule e scuole di moderni sussidi didattici e di gabinetti scientifici, suscitando qualche invidia nelle meno dotate scuole croate; si organizzarono viaggi d’istruzione in Italia riservati agli studenti per favorire la loro conoscenza della Terra di origine; si promossero Colonie estive organizzate in modo da assicurare agli studenti delle scuole italiane la convivenza con i loro coetanei d’Italia.

Sempre nell’intento di favorire il rivelarsi degli intellettuali, prudentemente mimetizzati nell’anonimato, con una buona dose di coraggio si lanciò, sin dal 1967, il Premio d’Arte e di Cultura “Istria nobilissima”, giunta oggi alla sua trentaduesima edizione.
Animatore e impareggiabile organizzatore dell’iniziativa fu il prof. Antonio Pellizzer, sostenuto dai due Enti in tal modo da trasformarlo in uno dei principali strumenti della crescita culturale italiana ed, a suo tempo, con l’estensione del diritto di partecipazione anche agli esuli, in uno dei tentativi, sempre molto difficili, di migliorare i rapporti fra esodati e rimasti.
I risultati, a vero dire sempre molto confortanti, del Premio nelle sue molteplici categorie di concorso, trovano, da sempre, collocazione e gradevole resoconto nella pubblicazione annuale dell’ “Antologia delle opere premiate”.
Ma già nel 1968, cioè l’anno dopo l’istituzione del “Premio”, si manifestarono le prime contrarietà delle autorità politiche jugoslave nei confronti della collaborazione con l’Università Popolare di Trieste.
Prima vittima del cambiato atteggiamento della stampa e delle Autorità fu proprio il “Premio Istria nobilissima”.
Scrivono, a questo proposito, Ezio e Luciano Giuricin, nella loro opera precedentemente citata: “Nonostante il sostegno formale espresso dai più alti vertici statali e politici, la campagna di accuse tese a gettare discredito sui contenuti della collaborazione e sui suoi indirizzi programmatici proseguì inesorabilmente.
A guidare questo processo, mosso evidentemente dalla volontà di contenere la presenza della componente italiana in Istria ed a Fiume, e favorito dall’insorgere di una nuova ondata di nazionalismo, furono alcuni gruppi di intellettuali croati dell’Istria.
Particolare “accanimento” venne espresso dalla rivista “Dometi” di Fiume, guidata dallo scrittore croato Cvane Crnja.
Egli, infatti, nel primo numero della rivista (apparsa nel 1968) si scagliò con veemenza contro l’azione di rinascita culturale e la riaffermazione politica della minoranza italiana promossa in quegli anni. Oggetto particolare degli strali dell’intellettuale jugoslavo, esponente di punta, fra l’altro, dell’ “Assemblea culturale ciacava dell’Istria”, fu il Premio “Istria nobilissima” che, a suo giudizio, date le origini e la denominazione prescelti, sarebbe stato promosso per “ristabilire una posizione di predominanza della cultura italiana in Istria, contro cui le forze nazionali jugoslave dovevano energicamente opporsi”. Secondo il Crnja quest’antica denominazione sarebbe stata “simbolo dell’irredentismo, o peggio, del fascismo”.

Ebbe così inizio la prima mossa polemica concernente i contenuti della collaborazione fra l’Università Popolare di Trieste e l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume: una polemica che avrebbe assunto, via via, nei mesi e negli anni successivi, toni e significati sempre più rilevanti sino al punto da coinvolgere direttamente le strutture politiche del Paese.
Fu, però, a partire dal 1971, che si verificò il più scoperto attacco della maggioranza alla minoranza italiana e il primo a farne le spese fu il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, fondamentale testimone della presenza italiana in Istria e principale promotore e sostenitore della collaborazione con l’Italia tramite l’Università Popolare.
Il Centro era stato fondato dall’Unione, con il determinante sostegno dell’Università Popolare di Trieste nel 1968, nell’intento di compiere ricerche, approfondimenti ed analisi sulla storia della Regione Istriana e sul Gruppo nazionale italiano: anima dell’iniziativa fu l’instancabile prof. Giovanni Radossi, affiancato da Luciano Giuricin.
Prodotto della nuova istituzione fu, oltre ad una intensa attività di ricerca, la pubblicazione annuale degli “Atti”, dei “Quaderni” e di opere diverse, sempre di natura storica e sempre in accordo e con l’apporto dell’Università Popolare di Trieste.
Fra queste ultime (ormai innumerevoli) va segnalata la ristampa della “Biografia degli uomini distinti dell’Istria” di Pietro Stancovich: l’avvenimento fu coronato da una solenne cerimonia, svoltasi a Dignano, e dallo scoprimento di una lapide a Barbana, in onore dell’autore della “Biografia”, nativo del luogo.
Allo scoprimento della lapide era presente il Console Generale d’Italia a Capodistria, dott. Onofrio Messina, la dirigente dell’Ufficio di Segreteria del Ministero degli Affari Esteri a Trieste, dott. Nelly Cefalo, i dirigenti dell’Università Popolare Rossi Sabatini, Rossit e Moncalvo, i dirigenti dell’Unione Borme e Illiasich e un gruppo di connazionali.
Le conseguenze politiche furono enormi. Secondo il solito Crnja (come riportato dal “Glas Istre” e dal “Novi List”), lo Stancovich sarebbe stato un “anticipatore del processo di snazionalizzazione della popolazione croata dell’Istria”.

Le forze nazionaliste jugoslave non risparmiarono, poi, pesanti attacchi alle decisioni della XIV Assemblea dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, tenutasi a Parenzo, durante la quale venne presa una decisione che capovolgeva totalmente la struttura organizzativa della minoranza: la trasformazione dei “Circoli italiani di cultura” in “Comunità italiane”.
Non si trattava soltanto di un cambio di etichetta, ma di una vera e propria rivoluzione: la connotazione quasi esclusivamente folcloristica dei Circoli, sarebbe stata abbandonata per assumere una connotazione più soggettiva, di natura anche politica, di piena autonomia, di maggiore e più attiva partecipazione alla vita culturale ed anche sociale del Paese.
Nella sua relazione alla predetta Assemblea parentina il presidente, prof. Borme, già largamente inviso alle autorità jugoslave, ebbe a dire queste significative parole: “La cultura del Gruppo nazionale non può essere ridotta alle sole manifestazioni linguistiche, letterarie, artistiche (…).
Il cittadino di nazionalità italiana non può essere relegato al ruolo di modesto traduttore di contenuti e modi di sentire che soltanto in parte sono suoi. Senza la perenne rigenerazione alle fonti della cultura della Nazione d’origine, sarebbe assurdo parlare della continuità di una cultura italiana in Istria.
Nel ventennio trascorso, per molteplici ragioni, questo apporto è mancato. Il Gruppo nazionale è stato culturalmente estraneo, o quasi, alla ricostruzione della cultura italiana dopo la caduta del fascismo. (…). Soltanto negli ultimi anni, l’intensificarsi dei contatti con il mondo culturale italiano, gli scambi tra gli uomini della cultura, il consistente afflusso di libri, di riviste, l’organizzazione di convegni, di seminari d’aggiornamento, hanno creato le condizioni più favorevoli alla comparsa di una cultura propria del Gruppo etnico italiano (…). In questo contesto si pone la collaborazione con la Nazione d’origine e l’Università Popolare di Trieste: ormai tutti ne riconoscono la necessità ed a questa esigenza si conforma l’azione della nostra Associazione”.
Ma nel corso dell’Assemblea parentina venne affrontato anche il diritto del Gruppo nazionale alla “rappresentanza qualificata”, cioè al diritto alla libera elezione di propri rappresentanti politici che fossero in grado di sostenere autorevolmente le aspirazioni e le legittime richieste degli italiani dell’Istria e del Fiumano, senza dover sottostare a condizionamenti esterni. Nella medesima esaltante occasione (si era, non lo si dimentichi, nel 1971), si sostenne il diritto e il dovere dei cittadini aderenti alle Comunità di esprimere e di dichiarare la propria “fierezza nazionale”. Si trattava veramente di un risveglio nazionale, dal quale prenderà le mosse tutta l’azione dell’etnia negli anni futuri, nonostante le continue resistenze e nonostante i numerosi atti di opposizione e persino di intimidazione del potere politico locale e centrale, che culminerà in un vero e proprio atto di forza con la destituzione del prof. Antonio Borme, promotore, ispiratore e animatore del riscatto nazionale e dei legami sempre più stretti con l’Italia: a favorire largamente questa azione comune nell’ambito della collaborazione fra Unione degli Italiani e Università Popolare di Trieste, contribuì, in larghissima misura, la salda amicizia instauratasi, fin dagli esordi, fra Lui e chi scrive questi appunti.
Correva l’anno 1974 quando, sin dai primi mesi, si manifestò una tensione politica molto forte fra Italia e Jugoslavia, causata dal problema della delimitazione definitiva dei confini fra i due Paesi. Ci fu uno scambio di severe note diplomatiche e, cosa ben più grave, in Istria ed a Fiume, le organizzazioni politiche locali, ispirate da Belgrado, promossero manifestazioni di piazza in favore delle pretese jugoslave.
È facile immaginare quale ripercussione ebbero queste vicende sul Gruppo nazionale italiano e, soprattutto, sulla collaborazione con l’Università Popolare di Trieste, cioè con l’Italia, che venne rimessa in discussione, con accuse anche molto pesanti.
Ciononostante e nonostante il pericolo di cedimento di qualche dirigente connazionale dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, i due Istituti ebbero la forza di continuare e, in qualche settore, di ampliare i loro rapporti e la loro attività: di estrema importanza, per esempio, e di alto significato politico, l’incontro ufficiale fra una delegazione dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e la Giunta Regionale del Friuli-Venezia Giulia, in occasione della conferenza internazionale sulle minoranze, svoltasi a Trieste, nel luglio dello stesso 1974.
Sarà da questo incontro che, alcuni anni dopo, scaturirà l’approvazione della Legge Regionale che designava l’Università Popolare di Trieste a svolgere tutta una serie di attività di natura culturale a beneficio del mantenimento dell’identità nazionale degli italiani dell’Istria e di Fiume: la Legge, articolata dall’Assessore Mizzau e dal Direttore Regionale Vernier, venne presentata in Consiglio da una forte relazione del dirigente profugo istriano Arturo Vigini, approvata e finanziata.
Le conseguenze morali della illegale e prepotente destituzione di Borme da presidente dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, furono catastrofiche e le Autorità politiche ne approfittarono per assestare un brutto colpo demolitore all’Unione degli Italiani: volevano persino abolire le Comunità Italiane e tornare ai Circoli di cultura. Si può dire che mai, come in quei giorni, la presenza in Istria ed a Fiume dell’Università Popolare, rappresentò la salvezza dell’Unione. Nel frattempo, infatti, erano stati firmati gli Accordi di Osimo, con i noti cedimenti da parte italiana e ciò bloccava la volontà della Lega dei comunisti di porre fine alla collaborazione e di eliminare dalla Jugoslavia l’Università Popolare di Trieste: ne sarebbero derivati indesiderati contrasti con l’Italia in un momento in cui i rapporti erano migliorati, grazie alla soluzione dei problemi confinari ed alla definitiva cessione della Zona B.
Così, anzi, la collaborazione vide accrescersi il suo campo d’azione: invece dell’eliminazione, visceralmente desiderata e fortemente auspicata dai politici jugoslavi, della presenza in Istria e a Fiume dell’Italia e dell’Università Popolare, vi si aggiunse quella, assai significativa, della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Diede concretezza visiva e pratica a questa nuova presenza l’organizzazione da parte dell’Università Popolare di Trieste per conto della Regione Friuli-Venezia Giulia, nel novembre 1979, delle “Giornate dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume nel Friuli-Venezia Giulia”, con l’esibizione a Trieste, a Udine, a Gorizia, a Pordenone dei migliori complessi artistici e musicali dell’etnia: memorabili la Mostra d’arti figurative a Villa Manin di Passariano, la tournée della Compagnia del Dramma Italiano e la proiezione del documentario sulla vita della minoranza, curato da Antonio Pellizzer, e intitolato “Un granellino, un ponte”.
Anche le iniziative dell’Università Popolare d’intesa con l’Unione degli Italiani si estesero e si ampliarono, soprattutto nel campo dell’attività editoriale, che trovò nella collaborazione con il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno il suo canale naturale. Videro così la luce un gran numero di opere di straordinario valore scientifico, fra le quali assunse un particolare significato la “Descriptio Histriae”, monumentale e illustratissimo studio storico-geografico della penisola istriana, la cui pubblicazione ottenne un successo talmente largo che, ancora oggi, all’Università Popolare giungono richieste di copie dall’Italia e dall’Estero, pur essendo trascorsi ben diciannove anni dalla sua presentazione alla presenza del Sottosegretario italiano agli Affari Esteri, Fioret. Impossibile elencare e commentare tutte le altre opere via via pubblicate fino a oggi, ma almeno un cenno va fatto alla “Storia di Rovigno” di Bernardo Benussi, alla “Storia di Fiume” in tre volumi di Giovanni Kobler e al “Vocabolario dignanese italiano” di Giovanni Andrea Della Zonca.
Particolare e sempre più vasto impegno l’Università Popolare pose nella costituzione e nell’arricchimento della Biblioteca del “Centro” di Rovigno, che si avvia rapidamente al traguardo dei centomila volumi di dotazione.
Intanto, pur permanendo l’ostilità all’Ente triestino da parte delle Autorità jugoslave, valutazioni sempre più positive venivano espresse sulla collaborazione, ormai irreversibile, con l’Università Popolare: cedevano persino alcuni elementi della Lega dei comunisti e, soprattutto, cambiava l’opinione pubblica triestina e faceva capolino, nella visione di molti, l’opportunità di superare antichi pregiudizi sia da parte dei rimasti che da parte degli esuli. Anche se i tempi non erano ancora maturi, serpeggiava di già l’idea della necessità che istriani al di là e al di qua del confine si reincontrassero, si parlassero, si intendessero e collaborassero in nome delle comuni radici, della terra comune che li aveva nutriti e della comunanza delle tradizioni che avrebbe dovuto affratellarli.
Poco convinte di questa tesi erano le Associazioni degli esuli: figuriamoci, poi, se potevano esserlo i rimasti, terrorizzati dai politici locali e centrali che del problema non volevano nemmeno sentir parlare!
L’Università Popolare, invece, non perdeva d’occhio questa eventualità che, ne era certa, prima o poi avrebbe dovuto trasformarsi in una realtà, per la quale era pronta a impegnarsi al massimo delle sue possibilità. E queste possibilità erano rilevanti: basti pensare che il prof. Luigi Ferri, nuovo presidente dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, anche se solo facente funzione, alla XV Assemblea di Pola (1977), cui partecipavano anche rappresentanti del potere politico, ebbe a dire testualmente: “Occorre riconoscere che l’Università Popolare di Trieste è stata sempre sensibile alle richieste dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, estremamente corretta in tutte le situazioni, e concreta nella realizzazione del programma. Il fatto che in questi lunghi anni di attività non si siano mai verificate lacune o deficienze è la prova più evidente della validità della collaborazione”.
Scrivono Ezio e Luciano Giuricin, nell’opera già citata: “Con la ratifica degli Accordi di Osimo la collaborazione Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume – Università Popolare di Trieste, venne ufficializzata e riconosciuta dai due Governi. Il Governo italiano, inoltre, ebbe la facoltà di estendere la propria azione di sostegno alla Comunità Italiana in Jugoslavia su tutto il territorio di insediamento storico del Gruppo nazionale (e non solo nella Zona B), delegando questa importante funzione all’Università Popolare di Trieste. Pertanto anche le ‘Relazioni analitiche annuali’ dell’Università Popolare di Trieste, a partire dal 1978 mutarono intestazione, riferendosi, non più, come previsto sino allora, all’ ‘Attività culturale gratuita svolta dall’Ente Università Popolare di Trieste a favore degli italiani residenti nei Territori ceduti alla Jugoslavia’, bensì – questa la nuova dicitura – agli ‘Interventi e attività culturali e didattiche promosse dall’Università Popolare di Trieste a favore del Gruppo nazionale italiano dell’Istria e di Fiume e delle sue istituzioni ai sensi del D.PR. 19 settembre 1978, n. 615, per incarico e con i sovvenzionamenti del Ministero degli Affari Esteri (Direzione Generale per le Relazioni Culturali – Ufficio I)'”.
Non è compito di questo breve scritto, elencare e soffermarsi particolareggiatamente sulle molteplici e multiformi attività e iniziative svolte dall’Università Popolare di Trieste nell’ambito della collaborazione con l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e nello spirito del citato Decreto presidenziale, anche perché il tema è stato compiutamente ed egregiamente svolto nella più volte citata opera dei Giuricin e perché una trattazione completa di esso è facilmente reperibile nel “Piano permanente” compilato e seguito dai due Istituti.
È tuttavia opportuno accennare al fatto che, sin dagli inizi della collaborazione, l’Università Popolare ha dato il proprio determinante sostegno anche alla Casa editrice EDIT, che curava, come tuttora cura, la pubblicazione de “La Voce del Popolo”, unico giornale quotidiano della minoranza, che registri, sin dal suo nascere, tutte le vicende dell’etnia e si soffermi, ogni giorno, sulle attività della collaborazione e sulle notizie di rilievo che riguardano ogni singola Comunità Italiana. Affiancano la “Voce” i periodici “La Battana”, “Arcobaleno” e, soprattutto, “Panorama”, che include, in ciascuno dei suoi numeri, editoriali ed articoli di vivo interesse, anche di natura politica.
Dopo Osimo si avviarono iniziative prima impensabili, che si poterono attuare, pur rimanendo, ovviamente, sgradite al potere: fra queste i corsi per i giovani studenti dedicati alla “Civiltà romana”: indimenticabile quello del 1982 conclusosi con un viaggio di oltre 200 studenti connazionali a Roma, dove vennero ricevuti, in Campidoglio, nella famosa Sala degli Orazi e Curiazi, dal sindaco della città Petroselli, che rivolse loro un appassionato discorso. Né fu questa l’unica occasione in cui la minoranza si recò nella capitale d’Italia e rese omaggio al nostro Capo dello Stato: nel XX anniversario della collaborazione (1984) ben 400 giovani connazionali furono ricevuti dal presidente Pertini al Quirinale in uno sfavillante Salone delle Feste; nel XXV anniversario (1989) una delegazione U.I.I.F.-U.P. fu ricevuta dal ministro Andreotti alla Farnesina, mentre nel XXX anniversario (1994) il presidente Scalfaro ricevette al Quirinale, nella Sala degli Arazzi, una delegazione composta per metà dai massimi dirigenti dell’Università Popolare e per l’altra metà dai massimi dirigenti dell’Unione Italiana: memorabili i discorsi pronunciati dal presidente della Repubblica, dal presidente dell’Unione e dal segretario generale dell’Università Popolare, nel clima della ritrovata democrazia in Slovenia e in Croazia. Ma proprio alla vigilia della dissoluzione della Jugoslavia e della formazione dei nuovi stati indipendenti, proprio alla vigilia delle tensioni che avrebbero portato a gravissimi conflitti armati, si accentuarono i giri di vite del potere politico (A.S.P.L. e L.C.) accompagnati da contrasti fra questo da un lato e la Comunità Italiana con l’Università Popolare dall’altra. Caso eclatante di questi dissapori fu la sede della Comunità Italiana di Rovigno, completamente restaurata con il contributo del Governo italiano. A lavori conclusi, il nostro Istituto volle che l’importante intervento fosse ricordato da una targa marmorea da collocarsi all’esterno dell’edificio restaurato, con un chiaro riferimento al fatto che il lavoro era stato reso possibile soltanto dal concreto interessamento dell’Italia e, per essa, dall’Università Popolare di Trieste e dall’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume. L’Alleanza socialista si oppose tenacemente e duramente. L’Università Popolare reagì con fermezza e decisione, chiedendo all’Unione degli Italiani che la Comunità di Rovigno, ormai completamente restaurata, rimanesse chiusa fino a che non venisse murata la targa. L’Unione si associò a questa richiesta. Il Governo italiano, a sua volta, intervenne, mentre la Lega dei comunisti di Fiume scatenava, più o meno segretamente, nei propri ambienti, accuse di irredentismo nei confronti dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e, soprattutto, di “pericolosità” della collaborazione con l’Università Popolare di Trieste. La persecuzione si estese al Centro di Ricerche Storiche di Rovigno: si arrivò a campagne di stampa da parte jugoslava, si arrivò a denunce giudiziarie, a intimidazioni di ogni genere, alle roventi accuse alla collaborazione della primavera del 1988 specialmente da parte di Stanislav Skrbec ed Ernest Cukrov.

Ma i tempi, per la Jugoslavia, ormai volgevano a grossi cambiamenti per il più aperto risveglio dei nazionalismi che da sempre, nei Balcani, covavano sotto la cenere. Ci fu un più deciso intervento del Governo italiano per la questione della targa che si risolse positivamente, dopo una riunione fra A.S.P.L., U.I.I.F. e U.P.T., dalla quale fu decisa la sua collocazione all’ingresso della Comunità e la riapertura della sede. Ma, come si diceva or ora, i tempi stavano maturando, anche per il Gruppo nazionale italiano, in seno al quale si formava il “Gruppo di opinione 88”), che, al di fuori dell’Unione, promuoveva, all’inizio del 1989, a Capodistria, una Tribuna pubblica affollatissima, alla quale vollero partecipare anche i rappresentanti dell’Università Popolare di Trieste. Attraverso la nuova formazione vennero finalmente resi pubblici i dolorosi problemi e le infinite traversie della minoranza italiana in Istria e nel Quarnero, adombrando tendenze indubbiamente democratiche, che già serpeggiavano in Jugoslavia: la risonanza fu larghissima, tanto da scatenare, ancora una volta, reazioni violente del già decadente potere politico, specialmente sloveno e croato: ne scaturì una durissima polemica di stampa fra Franco Juri, futuro ministro sloveno, e l’irriducibile Stanislav Skrbec, che fece dilagare ancor maggiormente l’interesse per i problemi degli italiani e l’aspirazione alla democrazia di tipo occidentale. Venne proposta e richiesta a gran voce la riabilitazione di Antonio Borme, la Jugoslavia venne apertamente accusata di aver attuato una vera e propria pulizia etnica nei confronti degli italiani e la si accusò di aver vietato la protezione culturale e dell’identità nazionale agli italiani dei Lussini e di altre località abitate da connazionali.

Va notato che il dissidio fra l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e Gruppo 88, dopo inutili tentativi di intesa, era molto profondo, anche se non incolmabile, come dimostreranno gli avvenimenti successivi del Gruppo etnico.
Intanto l’Università Popolare promuoveva nuove e grosse iniziative per sostenere la vitalità e sottolineare, anche agli occhi dell’opinione pubblica al di qua e al di là del confine, la consistente presenza italiana in Croazia e in Slovenia: venne organizzato all’Università di Urbino uno speciale Seminario per insegnanti dell’italiano come seconda lingua nelle scuole della maggioranza, venne ampliato il Seminario per giornalisti alla Scuola di giornalismo di Milano, venne indetto un concorso speciale e autonomo (rispetto ad “Istria nobilissima”) per giornalisti italiani delle testate italiane dell’EDIT di Fiume e, nel 1990, venne fondato, a Verteneglio, un Centro di musica classica.
Finalmente, nel 1991, si svolsero in Istria e nel Fiumano le prime elezioni democratiche dell’etnia italiana, che si svolsero secondo un nuovo regolamento elettorale dell’Organizzazione degli italiani, elaborato dall’U.I.I.F. assieme ai movimenti di opinione formatisi nel frattempo e cioè il “Movimento per la costituente” e il già citato “Gruppo 88”.
L’Assemblea che scaturì da queste elezioni si tenne a Pola, nel marzo di quell’anno: il prof. Antonio Borme fu eletto presidente dell’Assemblea ed il giovane Maurizio Tremul Presidente della Giunta Esecutiva: vennero eletti anche i responsabili per la stesura del nuovo Statuto e per l’elaborazione dell’indirizzo programmatico.
Approvati lo Statuto e l’indirizzo programmatico, i nuovi organismi democratici si misero alacremente al lavoro, ma si scontrarono subito con le difficoltà derivanti dalla guerra scoppiata in Jugoslavia e dalla proclamazione dell’indipendenza delle Repubbliche di Slovenia e di Croazia, che dividevano, con i nuovi confini fra i due Stati, il nostro Gruppo etnico in due parti ben separate.
Le conseguenze dello stato di guerra, specialmente in Croazia, si ripercossero soprattutto sull’economia, oltre che sulle distruzioni, provocando uno stato di povertà generale, del quale risentirono, naturalmente, anche i nostri connazionali che ben presto si trovarono in gravi difficoltà anche per i più piccoli spostamenti da una sede all’altra. Per evitare l’isolamento dei singoli gruppi, che avrebbe potuto compromettere il lungo e difficile lavoro di quasi tre decenni per l’aggregazione ed il compattamento della nostra Comunità nazionale, già vistosamente dispersa a pelle di leopardo su tutto il territorio istriano ed ora, per di più, separata da un confine statale, l’Università Popolare di Trieste venne in soccorso dell’etnia, accollandosi le più diverse spese di natura assistenziale, che fossero compatibili con la sopravvivenza dell’Unione e con l’attività culturale programmata. L’Ente triestino si fece carico delle ingenti spese per le riunioni dell’Assemblea e per quelle, frequentissime, della Giunta Esecutiva, provvide alle spese di trasporto e di mantenimento per i complessi dei connazionali che andavano in tournée in Istria e nel Quarnero, provvide a professionalizzare non pochi dirigenti, che, altrimenti, sarebbero stati immobilizzati, si preoccupò di coprire, in tutte le scuole italiane, inferiori e superiori, con docenti venuti da Trieste, le cattedre rimaste vacanti per l’abbandono di esse da parte dei titolari, specialmente in Croazia, perché la professione dell’insegnante, anche fra i connazionali, veniva compensata con retribuzioni da fame e si cercava di porre rimedio alla miseria, adattandosi a lavori magari più umili, ma che fossero in grado di assicurare, almeno la sopravvivenza.
Parte delle risorse che il Ministero degli Esteri italiano metteva a disposizione dell’Università Popolare di Trieste venne, perciò, impiegata più per fini assistenziali che culturali, ma sempre tesi alla conservazione dell’identità nazionale degli italiani dell’Istria.
Alle diverse Comunità, poi, vennero assegnati fondi specifici a rendiconto, affinché l’attività interna delle singole Comunità non venisse a cessare.

Con tutto ciò si può dire, senza tema di smentita, che, grazie alla collaborazione intelligente e, soprattutto, dinamica e libera da inghippi burocratici fra Ministero degli Esteri, che assicurava prontamente i fondi necessari, Università Popolare, Unione Italiana e Consolati Generali, non solo si riuscì a mantenere in funzione tutte le attività pianificate, ma se ne aggiunsero di nuove: basterebbe pensare all’estensione della Colonia estiva, in più turni, a tutti gli alunni italiani (centinaia) delle seste classi della scuola dell’obbligo e ai grossi restauri delle sedi comunitarie e delle scuole, ma, soprattutto, al fatto che le Comunità Italiane attive passarono dalle 22 concesse dal regime titino alle ben 48 attuali, includendo sedi come Pisino, Cherso, Lussino, Plostine e Kutina in Slavonia, Zara e Spalato, Grisignana e Montona, Pinguente e Orsera, e così via.
Tutto questo consentiva una fondamentale opera di recupero di molte migliaia di connazionali prima “sommersi” e di far ribollire di iniziative e di attività l’intera penisola istriana, il Quarnero e le isole, suscitando entusiasmi e riconoscimenti, soprattutto all’Italia e all’Istituto, l’Università Popolare di Trieste, che la rappresentava presso gli italiani dei territori ceduti.
A questo punto è doveroso sottolineare, infatti, che gli Stati domiciliari dei nostri connazionali ben poco aiutavano e ben poco aiutano, specie in Croazia, sia finanziariamente sia moralmente, la nostra etnia.
Ma anche un altro dato di fatto è certo: durante il ferreo regime jugoslavo, nessun italiano osava muoversi, né al di qua né al di là del confine, in soccorso della nostra etnia.
Dopo, invece, con l’avvento della democrazia in Slovenia e in Croazia si scatenò, da una parte, la corsa di Enti, Istituti e Organizzazioni triestine e venete al capezzale della minoranza italiana, prima ripudiata e misconosciuta e, dall’altro, la scomparsa del prof. Antonio Borme, nell’agosto 1992, provocò l’acuirsi delle difficoltà e degli aspetti negativi nella vita della nostra minoranza e nella collaborazione con l’Università Popolare di Trieste.
Ma il dinamismo di Maurizio Tremul, presidente della Giunta, la scelta come nuovo Presidente dell’Assemblea di un galantuomo come Giuseppe Rota e, sia detto, senza falsa modestia, la reazione dello scrivente come rappresentante dell’Università Popolare e fiduciario del Ministero degli Esteri, il lavoro di protezione, ormai estesissimo, poté continuare senza grandi scosse.

Anzi si deve sottolineare il fatto che l’attività e le iniziative, dopo la caduta del regime jugoslavo, sono notevolmente aumentate in tutti i settori previsti dal “Piano permanente”.
Ma ciò che più conta è che questo aumento estensivo non riguarda soltanto la quantità, ma soprattutto, la qualità degli interventi e che esso è stato determinato, in buona misura, dal fatto che il numero degli istriani dichiaratisi di nazionalità italiana nel censimento del 1991, raddoppiò rispetto a quello del 1981: 30.000, rispetto ai 15.000 di dieci anni prima. Né il Ministero degli Esteri, né la Regione Friuli-Venezia Giulia rimasero insensibili a questa presa di coscienza degli italiani di Croazia e di Slovenia, dopo la cessazione delle intimidazioni politiche: anzi è proprio del 1991 la Legge 19, seguita poi dalla 295/95 e dalla 89/98, approvate dal Parlamento italiano, che attribuiscono alla nostra minoranza cospicui fondi speciali, in aggiunta a quello ordinario, per l’acquisto o la costruzione di sedi di Comunità nazionali, per la costruzione di scuole o per restauri di edifici d’interesse per la collettività italiana.

Per quanto riguarda la Regione essa ha via via aumentato i suoi contributi, che hanno consentito, all’Università Popolare d’intesa con l’Unione Italiana, qualificanti azioni di protezione nazionale mediante la destinazione di somme non piccole alla diffusione in Istria e nel Fiumano della stampa italiana e mediante la presenza in Istria, a Fiume e nelle isole del Teatro lirico “G. Verdi” di Trieste e delle Compagnie di prosa triestine del “Teatro Stabile” e della “Contrada”.
Tutto ciò, se così si può dire, ha pungolato vieppiù, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’Università Popolare di Trieste, divenuta, ormai da tempo, per unanime definizione, il braccio operativo nei territori ceduti, sia del Ministero degli Esteri che della Regione, elevandone il prestigio a livelli di responsabilità molto impegnativi anche per il futuro.

In conclusione si può affermare, che in 35 anni di lavoro indefesso, coraggioso e sempre molto difficile, l’Università Popolare è riuscita a frenare tutti i tentativi di assimilazione della nostra etnia da parte del regime jugoslavo, è riuscita a ricompattare una minoranza dispersa e impaurita e a rafforzare la coscienza nazionale ed ha contribuito a ricreare ed a ricostituire una classe di intellettuali, che l’esodo aveva pressoché eliminata e che oggi può ben affermare d’essere una realtà feconda e riconosciuta nella stessa Italia, oltre che in Slovenia e in Croazia, per gli altissimi livelli di originalità raggiunti nella letteratura, nell’arte, nel teatro, nelle scienze, nella didattica e così via.
Così fino al 1999, con l’auspicio che l’Università Popolare possa continuare ancora a lungo ad essere la “madrina” degli italiani dell’Istria, di Fiume e del Quarnero, a poter sviluppare ed aggiornare senza sosta i propri programmi e le proprie iniziative, a poter continuare a godere della fiducia del nostro Ministero degli Esteri e della nostra Regione autonoma, a poter contare sempre su dirigenti dinamici, di agile pensiero e di larghe vedute, nonché su personale come quello che, con me, per tanti anni, è riuscito a realizzare cose che forse non molti altri avrebbero saputo fare.
Quanto a me, proprio ai primi del 1999, alla scadenza del Centenario della fondazione dell’Università Popolare (1899), ho lasciato, per ovvii motivi d’età, l’Ente, che ho ininterrottamente servito per cinquantadue anni, fiero d’essere stato insignito per questo, dal presidente della Repubblica, della Medaglia d’oro dei benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte.

Nota

A doveroso completamento di questo breve excursus storico-politico, è opportuno ricordare e sottolineare che un sostegno determinante (e non solo in termini finanziari) e spesso risolutivo alla molteplice e quotidiana opera dell’Università Popolare di Trieste in Istria, nel Fiumano, nel Quarnero, nelle isole e in Slavonia, venne costantemente ed omogeneamente dato dai Consoli Generali d’Italia a Capodistria prima ed a Capodistria e Fiume poi, nonchè dalle Direzioni Generali delle Relazioni Culturali e degli Affari Politici, poi.
Con questi esponenti del Governo italiano, felicemente scelti dal Ministero degli Affari Esteri, l’Università Popolare di Trieste ebbe sempre un continuo e felice rapporto sia a Capodistria, che a Fiume, che a Roma: solo nella Capitale ed alla Farnesina avemmo ottantasei incontri di lavoro e, diciamolo pure, di indirizzo e di incoraggiamento, con Ministri (più volte Giulio Andreotti, poi Gianni De Michelis), con Sottosegretari (memorabili quelli ripetuti con il Sottosegretario Mario Fioret, con il Sottosegretario Valdo Spini, con i Sottosegretari Claudio Vitalone, Patrizia Toia, Gilberto Bonalumi e Sergio Coloni), con i Direttori Generali (Roberto Ducci, Bruno Bottai, Enrico Pietromarchi, Sergio Vento, Sergio Romano, ecc.).
Dopo la caduta del regime in Jugoslavia, sempre più frequenti si fecero le visite di esponenti politici e di alti funzionari romani in Istria ed a Fiume, con contatti sempre più proficui con i massimi dirigenti dell’Unione Italiana, che, a loro volta, si recavano a Roma, al Ministero, per trattare direttamente, con i responsabili della Farnesina, problemi organizzativi e politici riguardanti la minoranza italiana in Slovenia e in Croazia.
Indimenticabili i Consoli che dal 1962 si succedettero al Consolato Generale a Capodistria: dal già ricordato Guido Zecchin, al dinamico Amedeo Cerchione, da Mario Alessi a Onofrio Messina, da Gianfranco Facco Bonetti (ora Direttore Generale delle Relazioni Culturali a Roma) a Ludovico Tassoni Estense di Castelvecchio, da Felice Scauso a Luigi Solari e poi Michele Esposito a Capodistria e Gianfranco de Luigi a Fiume, Rosa Maria Chicco Ferrari a Capodistria e Mario Musella a Fiume, mentre non si possono dimenticare gli Ambasciatori Francesco Olivieri a Zagabria e Luigi Solari e Massimo Spinetti a Lubiana.
Ma come dimenticare gli alti funzionari delle due Direzioni citate, cui i Consoli Generali facevano capo e che erano, anch’essi, diretti e personali interlocutori dell’Università Popolare di Trieste? Il coraggioso e saggio iniziatore della collaborazione Mario Ferrari di Carpi, Luigi Augusto Lauriola, Diaz, Roberto Rossi, Rizzo, Lucio Pallotta, Roberto Pietrosanto, Pier Attimio Forlano per i Culturali; Antonello Pietromarchi, Renato Maria Ricci, Laura Mirachian e soprattutto Pietro Ercole Ago per i Politici, il quale ultimo, in tempi di estrema difficoltà, specialmente politica, seppe risolvere problemi di grande complessità, avviando la collaborazione Università Popolare – Unione degli Italiani su binari di tranquillità e di regolarità, dopo i sommovimenti bellici e costituzionali in Jugoslavia: fu Pietro Ercole Ago, poi, a portare due rappresentanti del Ministero degli Esteri in seno al Consiglio d’Amministrazione dell’Università Popolare, a maggior testimonianza dello stretto interesse e dei solidi legami che univano la Farnesina all’Ente triestino.
Va ricordato che durante i decenni di impegno dell’Università Popolare in Istria, a Fiume e nel Quarnero si sono succeduti come Presidenti dell’Ente Mario Picotti, Giuseppe Rossi Sabatini, Silvio Rutteri, Bruno Maier e Aldo Raimondi.

Indimenticabili i Consoli che dal 1962 si succedettero al Consolato Generale a Capodistria: dal già ricordato Guido Zecchin, al dinamico Amedeo Cerchione, da Mario Alessi a Onofrio Messina, da Gianfranco Facco Bonetti (ora Direttore Generale delle Relazioni Culturali a Roma) a Ludovico Tassoni Estense di Castelvecchio, da Felice Scauso a Luigi Solari e poi Michele Esposito a Capodistria e Gianfranco de Luigi a Fiume, Rosa Maria Chicco Ferrari a Capodistria e Mario Musella a Fiume, mentre non si possono dimenticare gli Ambasciatori Francesco Olivieri a Zagabria e Luigi Solari e Massimo Spinetti a Lubiana.
Ma come dimenticare gli alti funzionari delle due Direzioni citate, cui i Consoli Generali facevano capo e che erano, anch’essi, diretti e personali interlocutori dell’Università Popolare di Trieste? Il coraggioso e saggio iniziatore della collaborazione Mario Ferrari di Carpi, Luigi Augusto Lauriola, Diaz, Roberto Rossi, Rizzo, Lucio Pallotta, Roberto Pietrosanto, Pier Attimio Forlano per i Culturali; Antonello Pietromarchi, Renato Maria Ricci, Laura Mirachian e soprattutto Pietro Ercole Ago per i Politici, il quale ultimo, in tempi di estrema difficoltà, specialmente politica, seppe risolvere problemi di grande complessità, avviando la collaborazione Università Popolare – Unione degli Italiani su binari di tranquillità e di regolarità, dopo i sommovimenti bellici e costituzionali in Jugoslavia: fu Pietro Ercole Ago, poi, a portare due rappresentanti del Ministero degli Esteri in seno al Consiglio d’Amministrazione dell’Università Popolare, a maggior testimonianza dello stretto interesse e dei solidi legami che univano la Farnesina all’Ente triestino.
Va ricordato che durante i decenni di impegno dell’Università Popolare in Istria, a Fiume e nel Quarnero si sono succeduti come Presidenti dell’Ente Mario Picotti, Giuseppe Rossi Sabatini, Silvio Rutteri, Bruno Maier e Aldo Raimondi.