Università Popolare di Trieste 1899-1999, Cent’anni di impegno nella tutela e promozione della cultura italiana a Trieste e la su Provincia, in Istria, Fiume e Dalmazia, Fulvio Salimbeni
Il Centro di ricerche storiche di Rovigno è sorto, per iniziativa dell’UIIF e di un manipolo di coraggiosi, sul finire del 1968, in un momento politicamente delicato per il gruppo nazionale italiano in Jugoslavia, come ha ricordato, con la consueta chiarezza e lucidità, Giovanni Radossi nell’articolo commemorativo pubblicato in “Panorama” di Fiume del 31 dicembre 1998 (n.24), al quale si rinvia una volta per tutte per la ricostruzione delle vicende pubbliche di questa prestigiosa istituzione, al cui decollo, affermazione e attività in generale l’UPT ha fornito un contributo determinante. Poiché nelle note che seguono si intende analizzare il consistente apporto dato dal CRS sul versante storiografico e culturale in senso lato, è bene soffermarsi su quello che è il contesto della ricerca storica di allora in Italia, naturale punto di riferimento, tramite la mediazione triestina, per la nuova iniziativa, e in ambito internazionale.
Se nel capoluogo giuliano è attivo ormai da tempo l’ateneo, che può annoverare numerosi insegnamenti storici nelle facoltà di lettere e filosofia, magistero, giurisprudenza e scienze politiche, dove operano studiosi quali Giulio Cervani, Elio Apih, Arduino Agnelli, Carlo Ghisalberti, Giorgio Negrelli – si citano qui soltanto coloro i cui interessi erano più intimamente connessi a quelli del centro rovignese -, non vanno trascurati neppure il Comitato di Trieste e Gorizia dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, diretto e animato da Francesco S. Romano e dallo stesso Cervani, che proprio nel 1965 aveva dato alle stampe il primo volume della collana “Civiltà del Risorgimento” – che avrebbe attribuito un rilievo più che notevole alle questioni adriatiche -, né l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, che alle spalle aveva già un quindicennio di operosità, mentre la Deputazione di storia patria per la Venezia Giulia iniziava proprio allora a muovere i primi passi, ospitata in quell’Archivio di Stato che, sotto la guida di Ugo Tucci, Maria Laura Iona e Ugo Cova, stava diventando un insostituibile punto di riferimento per quanti volessero occuparsi di storia giuliana e dalmata in età moderna e contemporanea.
È doveroso, inoltre, menzionare anche – oltre all’ “Archeografo Triestino” della Società di Minerva, secolare baluardo dell’erudizione patria di stampo liberalnazionale – la rivista “Trieste”, e non solo perché in quegli anni era una delle voci più originali e vivaci del panorama intellettuale triestino, ma anche perché – e l’ha sottolineato opportunamente il Radossi nell’intervento di cui sopra – uno dei suoi animatori era quell’Iginio Moncalvo che tanta parte avrebbe avuto nell’esperienza degli “Atti” del CRS, costituendo quasi una sorta di trait d’union dei due periodici, tra i quali vi fu pure una sorta di travaso dei collaboratori.
Di lì a poco, poi, si sarebbe trasferita a Trieste la Società Istriana di archeologia e storia patria, sino allora in esilio a Venezia, ai cui “Atti e Memorie” si sarebbe guardato come a un necessario precedente e modello, secondo quanto scritto dal loro stesso direttore nell’articolo già segnalato, per gli “Atti” del CRS.
Tale essendo il panorama storiografico triestino all’altezza del 1968, ricco di istituzioni di vaglia e caratterizzato dalla presenza di una generazione di studiosi forgiatisi alla lezione di un maestro quale Nino Valeri, certamente uno dei maggiori storici italiani del secondo dopoguerra – non si può ignorare, peraltro, che tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta tenne la docenza di storia contemporanea nell’università giuliana Enzo Collotti, animatore pure dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione, la cui attenzione per le vicende jugoslave e in genere balcaniche del Novecento avrebbe orientato parecchi ricercatori, benché spesso in modo discutibile per il prevalere di condizionamenti ideologici tutt’altro che trascurabili, verso tali argomenti, essenziali per meglio intendere e lumeggiare la storia istriana e dalmata, difficilmente comprensibile qualora valutata solamente in un’ottica italocentrica -, resta ora da vedere almeno in modo sommario quale fosse la coeva situazione degli studi storici a livello nazionale.
Sono, questi, gli anni della scoperta delle “Annales” e del loro trionfo in Italia: si traducono l’uno dopo l’altro i più significativi testi di Bloch, Febvre, Braudel e dei loro allievi; compaiono saggi e studi su quell’indirizzo storiografico; i “Quaderni storici”, iniziati nel 1966 e destinati a divenire una delle più prestigiose riviste europee di storia, ne diffondono temi, metodologie e orientamenti, dalla pluridisciplinarietà alla microstoria, dall’attenzione per i fattori economici e sociali all’interesse per le mentalità collettive e per le masse anonime, introducendo la linguistica, l’antropologia culturale, la sociologia nel bagaglio dello storico, mentre poco dopo (1972) Gabriele De Rosa avrebbe avviato le semestrali “Ricerche di storia sociale e religiosa”, esse pure aperte al messaggio della cultura storica transalpina, recepito, però, all’interno della soda erudizione e della storia della pietà deluchiane.
Nell’area culturale marxista, inoltre, è vivo il dibattito sugli scritti gramsciani e sugli spunti, tra l’altro, in essi presenti per uno studio diverso e classisticamente connotato della vita nazionale dal medioevo al fascismo nelle sue varie componenti materiali e spirituali, mentre appaiono in declino, almeno per il momento, le fortune della storiografia eticopolitica d’ispirazione crociana.
In una prospettiva internazionale, d’altra parte, essendo allora agli esordi una rivista quale “Past & Present”, la scena era dominata dalle “Annales” per un verso e dalla corrente marxista classica, nella quale un rilievo particolare avevano studiosi polacchi, cechi, ungheresi, che sapevano risciacquare i panni del dogmatismo sovietico nelle acque delle gloriose tradizioni nazionali e dell’influenza della cultura storica francese e tedesca, per un altro, sullo sfondo restando la new economic history statunitense, tramontata abbastanza presto.
Questo schematico profilo non sarebbe completo, ai fini del nostro discorso, se non si facesse riferimento pure all’attività della Fondazione Cini, sorta negli anni Cinquanta, promotrice di innumerevoli convegni e pubblicazioni sulla storia adriatica e sulle relazioni tra Italia e Balcani, cui parteciparono anche studiosi della RFSJ e dove si trattò ampiamente d’Istria e di Dalmazia, e ai periodici incontri della commissione degli storici italiani e jugoslavi per discutere dei comuni problemi di ricerca e per giungere a letture meno divergenti e contrastanti delle vicende passate, ancora troppo condizionate, nella loro interpretazione, dalla memoria dei tragici eventi della seconda guerra mondiale e delle tensioni postbelliche.
Questo, dunque, il quadro complessivo nel quale si colloca la nascita del CRS e delle sue iniziative editoriali, sempre incoraggiate e sostenute dall’UPT e dall’Unione Italiana, e che andava sinteticamente tracciato per meglio apprezzarne l’opera e il contributo scientifico, che travalicano ampiamente i confini regionali.
Iniziata l’attività con gli “Atti”, il cui primo volume comparve nel 1970, ben presto vi si affiancarono la serie delle Monografie (1971) e i “Quaderni” (1971), i Documenti (1972), la Collana degli “Atti” (1977), gli Acta historica nova (1981), i Cataloghi di fonti per la storia dell’Istria e di Fiume (1983), le miscellanee Ricerche sociali (1989), la collana Etnia (1990), il bollettino “La Ricerca” (1991), per un complesso di decine di tomi e fascicoli e di centinaia di titoli, dovuti a studiosi locali, della madrepatria, sloveni e croati; un dettagliato Indice delle pubblicazioni in 30 anni di attività è riportato ne “La Ricerca”, nn. 23-24, 1998-1999, e a esso si rinvia per riferimenti più puntuali.
Quello che si può rilevare subito, e che già il Radossi aveva notato nelle considerazioni rievocative, è l’esplicito intento dei promotori del Centro, attraverso il titolo prescelto per l’annuario e la sua impostazione, di richiamarsi alla prestigiosa esperienza della Società Istriana di archeologia e storia patria e dei suoi “Atti e Memorie”, e ciò non solo e non tanto per rifarsi alla più autorevole espressione della tradizione storiografica regionale, ma per quello che essa aveva significato e aveva voluto essere dalla fondazione in poi sul piano dell’impegno civile e nazionale nell’accezione più alta del termine.
Quell’istituzione e il suo organo, infatti, erano sorti nel 1884, in un momento in cui all’interno della plurietnica monarchia austro-ungarica andavano rafforzandosi i movimenti nazionali, venivano affermandosi i vari irredentismi, incluso quello italiano, e in Istria e Dalmazia l’elemento sloveno e croato a poco a poco conquistava sempre nuove posizioni sul piano economico, sociale, politico, amministrativo a scapito della componente latina veneta, sempre più costretta sulla difensiva e vista con diffidenza dall’imperialregio governo, che guardava con crescente sospetto a quella minoranza progressivamente orientantesi verso il finitimo regno sabaudo.
Da qui l’esigenza di fondare una società di storia patria, che sostenesse con le ragioni della scienza storica – intesa in un’accezione molto ampia, tale da abbracciare pure linguistica, archeologia, folklore – i diritti nazionali degli italiani, serbandone inalterati l’identità comunitaria e il plurisecolare retaggio spirituale, programma cui gli “Atti e Memorie” s’attennero fedelmente allora e poi, pur con alcuni eccessi nazionalistici nel ventennio fascista.
Poiché il gruppo nazionale italiano nella Jugoslavia titoista di fine anni Sessanta si trovava in una situazione per più versi affine, aggravata dall’oppressione della dittatura comunista, era ovvio, benché implicito e sottinteso, dato il regime vigente, il richiamo a quel precedente e a quel modello, che sottende e spiega quanto fatto dal 1970 a oggi, che non è davvero poco in termini né quantitativi né qualitativi.
Già il primo tomo degli “Atti”, del resto, era eloquente da tale punto di vista, accogliendo, tra gli altri, uno studio del Radossi sullo statuto di Dignano – e il tema statutario, che era stato uno di quelli caratterizzanti tutta la secolare vicenda degli “Atti e Memorie”, sarebbe stato ripetutamente indagato, sia pure aggiornandolo metodologicamente sulla scia della più recente storiografia sociale e giuridica, anche nell’annuario rovignese – e uno del Cernecca su don Pietro Stancovich, campione dell’erudizione istriana ottocentesca, autore di una Biografia degli uomini distinti dell’Istria, che il CRS avrebbe riproposto prima a puntate negli “Atti” (vol. I ss.) e poi in tre volumi (1971-1974) nella serie delle Edizioni straordinarie.
Nella medesima ottica si pone, d’altronde, la ristampa, a cura di G. Cervani, quale titolo inaugurale della Collana degli “Atti” (1977), della Storia documentata di Rovigno di Bernardo Benussi, emblema della storiografia liberalnazionale istriana tra Otto e Novecento, il cui nome e la cui opera erano una vera e propria bandiera per chi volesse difendere la propria italianità da vecchi e nuovi nemici, pur se ammantati delle vesti del più puro internazionalismo socialista.
A leggere in filigrana, controluce, le prime annate degli “Atti” si rinvengono non poche spie di un siffatto orientamento, perché non è da ritenere certo solo casuale la pubblicazione di una lettera del Tommaseo, mediatore per eccellenza tra mondo italiano e slavo nell’età del Risorgimento, nel vol. I degli stessi, così come è significativa la presenza del saggio di A. Agnelli su Mazzini e le giovani nazioni nel vol. III, sintomatico della volontà di riallacciarsi alla miglior tradizione ottocentesca relativamente alla questione dei rapporti tra italiani e “illirici”.
Sul piano più propriamente storiografico, inoltre, il CRS ha sempre avuto quale obiettivo prioritario quello di recuperare e rivalutare il patrimonio più cospicuo della ricerca storica regionale tra XIX e XX secolo e la sua impostazione metodologica di stampo positivistico, curando nuove edizioni, introdotte e annotate da specialisti quali G. Rossi Sabatini e G. Cuscito, della Storia della liburnica città di Fiume del Kobler (1978), del Saggio d’una storia dell’Istria dai primi tempi sino all’epoca della dominazione romana (1986), lavoro giovanile del Benussi, e dell’ormai classico L’Istria nei suoi due millenni di storia, testamento spirituale dell’illustre storico rovignese (1997).
La rimessa in circuito di tali opere, tutte fondate sullo scavo d’archivio, sulla documentazione cartacea e archeologica, sulla padronanza della miglior letteratura scientifica non solo regionale, era anche una dichiarazione programmatica di metodo, l’esplicitazione nei fatti, e non solo a parole, della necessità d’ancorare l’indagine storica ai dati accertati, inoppugnabili, senza lasciarsi condizionare dalle ideologie imperanti, nazionali e/o di classe che esse fossero, in questo modo polemizzando con quella storiografia slovena e croata, segnata in profondità dalla scolastica comunista e dal fanatismo nazionalista, che contestava alla radice l’italianità locale, leggendo con gli occhiali del pregiudizio politico ed etnico il passato e scordando i suoi tutt’altro che trascurabili precedenti nel campo della ricerca storica, essi pure improntati a spiriti positivistici, nell’età dell’ultima Austria-Ungheria.
In siffatta prospettiva di lavoro il Centro rovignese, inoltre, non mancava di pubblicare anche preziose fonti quali il Catastico generale dei boschi della provincia dell’Istria, dovuto al Morosini (1980), e utili strumenti di consultazione come i primi due tomi del Catalogo analitico della stampa periodica istriana (1807-1870) e (1871-1879), curati rispettivamente da Elio Apih e da Carla Colli (1983 e 1986), attestanti, tra l’altro, la ricchezza della vita culturale e civile istriana nel XIX secolo e la vivacità e fioritura del suo giornalismo, mentre nel vol. XV degli “Atti” (1984 – 85) la stessa Colli ripresentava lo studio “Degli Slavi istriani” di don Antonio Facchinetti.
Questo rifarsi costante e tenace al retaggio della storiografia liberalnazionale e in genere italiana dell’Istria non significava, però, volontà del CRS di ripetere il fatale errore dei ricercatori della Società Istriana di archeologia e storia patria, che avevano di proposito evitato ogni confronto con quelli slavi, semplicemente ignorandoli e mai pensando di discuterne tesi e testi, quasi che non esistessero o non avessero alcun valore sul piano scientifico, donde le amare quanto pertinenti riflessioni di Sergio Cella nei primi fascicoli della nuova serie degli “Atti e Memorie”, quella dell’esilio, su una simile cecità, così gravida di conseguenze politiche e culturali durante e dopo la seconda guerra mondiale, che fece trovare l’intelligenza istriana impreparata a contrastare in modo efficace le rivendicazioni jugoslave.
Nelle riviste e nelle collane di coloro che si consideravano eredi di quell’istituzione, invece, sin dall’inizio vi fu un’esplicita intenzione di dialogare con gli “altri”, e ciò non solo perché in una realtà multietnica quale quella nella quale si trovavano inseriti ciò era quasi obbligato, una sorta di atto dovuto, ma anche e ancor più perché si era consapevoli della necessità di misurarsi pure con gli storici sloveni e croati e di confrontarsi con essi sul piano della concreta ricerca storiografica per quanto concerneva l’ambito della storia locale.
Tale corretta e lungimirante impostazione faceva sì che gli “Atti” accogliessero quasi in parallelo un puntuale Sommario della storiografia istriana dal 1965 al 1975 in Jugoslavia, firmato dal croato Miroslav Bertoša, uno dei più assidui e migliori collaboratori della rivista (vol. VI, 1975-76), e l’articolata Rassegna degli studi storici istriani editi in Italia nell’ultimo decennio, stesa dal Rossi Sabatini (vol. VII, 1976-77), che consentiva finalmente un proficuo scambio di informazioni bibliografiche tra le due storiografie, mentre un quindicennio dopo Marino Budicin avrebbe provveduto a un’accurata Rassegna della storiografia croata sull’Istria e sulle isole di Cherso e Lussino (1976-1993) (vol. XXIII, 1993); nelle annate XX e XXII (1989-90 e 1992), inoltre, compariva un profilo, in due puntate, de Gli studi di storia medievale e moderna negli “Atti e Memorie della Società Istriana di archeologia e storia patria”. Tra politica e storiografia.
A parte ciò, alle varie iniziative editoriali del Centro hanno collaborato e collaborano studiosi quali – oltre al Bertoša, autore di numerosi e importanti saggi sulla storia sociale istriana in età moderna, nei quali è evidente l’influenza della lezione delle “Annales”-, l’antichista V. Jurki} – Girardi, l’archeologo Br. Maruši}, L. Margeti}, M. Pahor, P. Str~i} – cui si deve una panoramica de La storiografia jugoslava sull’Istria e sulle isole del Quarnero nel XIX secolo e all’inizio del XX (1965 – 1975) (“Atti”, vol. IX, 1978 – 79)-, R. Matej~i}, A. Sonje, R. Matjaši}, F. Gestrin, E. Stip~evi}, M. Kacin – Wohinz e altri ancora, facendo delle pubblicazioni del CRS una vera e propria palestra della storiografia adriatica e un luogo di collaborazione scientifica e di fruttuosa indagine comune, in cui superare antiche diffidenze e incomprensioni, ritrovandosi sul piano dell’indagine, modernamente concepita e condotta, sui molteplici aspetti, elementi e momenti della storia regionale, indagata dai più diversi punti di vista disciplinari.
Recuperando l’esempio della cultura storica positivista, rimeditato, peraltro, alla luce della metodologia delle più avanzate esperienze storiografiche internazionali, si sono condotte indagini sull’intero arco cronologico delle vicende istriane, dai primi insediamenti protostorici agli eventi più recenti – oggetto, questi ultimi, di una particolare attenzione nei “Quaderni”, laddove gli “Atti” di norma si sono mantenuti entro il limite della Grande Guerra -, affrontando tanto la più tradizionale storia politica e istituzionale quanto quella economica e sociale, i fatti e le figure più significative della vita culturale così come la dimensione religiosa – a quella dell’età della Riforma e della Controriforma ha dedicato numerosi e documentati contributi Antonio Miculian, dalle carte ecclesiastiche sapendo ricavare una messe di dati e di informazioni di prim’ordine sul vissuto quotidiano sia materiale sia spirituale dei fedeli del tempo, dimostrando così di aver ben colto e applicato i suggerimenti e gli stimoli della nuova storiografia socioreligiosa italiana -, i problemi demografici, nella cui analisi e interpretazione negli ultimi anni s’è venuto imponendo quel giovane e promettente ricercatore che è Egidio Ivetic – al quale ora si deve pure l’appena comparso In Istria, tra Quattrocento e Settecento.
Introduzione ad una storia regionale (1998), che merita un discorso specifico, da svolgere in altra sede, perché, anche se pensato per la scuola, è, in realtà, un eccellente avviamento non solo didattico alla storia istriana in età moderna, da prendere come esempio pure per gli altri periodi d’essa -, la storia dell’arte e della musica tanto colta quanto popolare – campo nel quale sono da segnalare i lavori del Cavallini, dello Starec e dello Stip~evi} -, le tradizioni popolari e l’antropologia culturale, dando un rilievo particolare alle questioni linguistiche, già, del resto, elemento qualificante degli “Atti e Memorie” della Società Istriana di archeologia e storia patria, il che si spiega con facilità pensando all’importanza che la lingua ha avuto, dalla formulazione romantica dell’idea di nazione in poi, nel definire l’appartenenza etnica dei parlanti e nel segnare persone e luoghi.
Non è affatto per accidente che nella Venezia Giulia tra Otto e Novecento, come nelle altre regioni europee di frontiera e mistilingui (si pensi solo all’Alsazia e alla Lorena e a un caso particolare come quello di Praga, per non parlare della monarchia asburgica nel suo insieme), v’è stata una singolare fioritura di valenti cultori di studi storici e linguistici, visto che queste erano le discipline ritenute fondamentali per stabilire le identità nazionali, sicché gli studi glottologici e dialettologici ospitati nei volumi e nei fascicoli dei periodici del CRS si ricollegano direttamente all’esemplare tradizione regionale in materia, illustrata dai nomi del Bartoli, del Vidossi, dell’ Ive, del Goidanich, del Rosamani.
Benché tutta la storia istriana sia trattata con pari attenzione, molti essendo i contributi sull’antichità, sull’età medievale e moderna – quest’ultima un tempo negletta, in quanto ritenuta senza storia, trattandosi del periodo dell’idealizzata dominazione veneziana, privo di eventi di particolare rilievo nell’ottica della storiografia politica – e sul Risorgimento, un rilievo particolare è attribuito al XX secolo, in particolare ai decenni successivi all’annessione all’Italia dopo la prima guerra mondiale, alla lotta antifascista sia durante il ventennio della dittatura sia, e ancor più, durante la Resistenza, perché per i promotori del Centro era di primaria importanza documentare l’apporto tutt’altro che trascurabile della componente italiana a essa, posto in discussione, ridimensionato o perfino negato e contestato per ovvie ragioni nazionalistiche e ideologiche dagli studiosi sloveni e croati, per i quali valeva ancora in larga misura lo stereotipo dell’ “italiano fascista”, il che spiega il taglio particolare dei “Quaderni” così come la pubblicazione di memorie dei protagonisti di quegli eventi e di ricostruzioni di quei fatti nella serie delle Monografie, che, tarate di quel tanto di conformismo e di adeguamento dovuto e imposto dall’ideologia totalitaria allora dominante, restano ancora preziose per intendere il clima di quei tempi calamitosi e l’atmosfera in cui nacque e s’affermò il progetto del CRS.
Dissoltasi la Jugoslavia e scomparso il regime comunista, l’istituzione rovignese s’è trovata a misurarsi con nuovi problemi e a muoversi entro nuovi scenari, rimodulando la propria struttura e attività.
Negli anni Novanta, infatti, v’è stata una crescente attenzione per la didattica della storia locale – si pensi al seminario degli esperti del progetto “Anthropos”, un’iniziativa di respiro nazionale sostenuta dall’editrice bresciana “La Scuola” per un rinnovato insegnamento di storia, geografia e studi sociali nelle scuole elementari italiane dopo l’entrata in vigore dei nuovi programmi ministeriali del 1985, e a quello sulla storia dell’Istria, svolto d’intesa con IRCI e UPT in occasione della pubblicazione del volume di AA.VV., Istria. Storia di una regione di frontiera (Morcelliana, Brescia 1994) – e in generale per i problemi scolastici nella loro accezione più ampia, oltre che per la situazione complessiva della comunità italiana nei due stati successori, Slovenia e Croazia, cui sono state dedicate la collana Etnia e le sillogi di Ricerche sociali, che hanno accolto numerosi contributi sociologici, demografici, linguistici, pedagogici e anche filosofici in merito, mentre la stessa “Ricerca” e gli ultimi numeri dei “Quaderni” sono intervenuti con ampiezza al riguardo, affrontando anche argomenti storici un tempo impensabili, almeno secondo una certa impostazione – si veda ora il bel saggio di Pamela Ballinger, Rewriting the text of the nation: D’Annunzio at Fiume, uscito nel vol. XI (1997) dei “Quaderni”, che ospita pure una rilettura critica de Il settembre ’43 in Istria e a Fiume, operata da L. Giuricin -, e ancor oggi scottanti, come quello dei rapporti tra esuli e rimasti dopo la catastrofe del 1945, esaminato da R. Ugussi in Ricerche sociali, n. 3, 1992.
Il pur sommario discorso sin qui svolto sul CRS sarebbe incompleto se non si rendesse il dovuto riconoscimento al ruolo ch’esso ha svolto nella formazione e valorizzazione di giovani studiosi locali, poi affermatisi per la qualità dei loro studi (Miculian, Budicin, Orietta Moscarda, Ivetic, solo per citare alcuni nomi), e nel coinvolgimento di docenti nelle istituzioni della comunità nazionale come Nelida Milani, Ugussi, Monica, saldando così l’ambito della ricerca a quello della didattica, il mondo della scuola a quello in un certo qual senso accademico.
Oggi, a trent’anni circa dal suo inizio effettivo, il Centro tenacemente voluto da Antonio Borme, Giovanni Radossi e pochi altri “incoscienti” si qualifica come una delle realtà più dinamiche e attive in ambito storiografico nel bacino altoadriatico, affiancando degnamente le proprie collane e riviste a quelle triestine citate in apertura, cui dal 1980 si sono aggiunti i “Quaderni Giuliani di storia”, organo semestrale della locale Deputazione di storia patria, molti dei cui soci collaborano proficuamente con esso, e dal finire degli anni Ottanta pure le pubblicazioni dell’Istituto regionale per la cultura istriana (IRCI) e dell’Istituto Giuliano di storia, cultura e documentazione, e venendo chiamato a partecipare all’iniziativa del Centro internazionale di studi comparati per la storia dell’area adriatica, progettato e promosso da Gabriele De Rosa tramite la cooperazione del suo Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa di Vicenza e della Deputazione giuliana, un invito, questo, che appare il miglior riconoscimento che si potesse sperare per l’opera infaticabile e sempre d’elevata qualità scientifica del Centro di ricerche storiche di Rovigno.